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Se non c’è amore, c’è agitazione. Report dalla mobilitazione dei lavoratori dell’Ilva

ilvaimmVado a casa, bacio la bimba, e torno qui… Dice un operaio dell’Ilva al blocco di lunedì pomeriggio di fronte alla stazione ferroviaria di Cornigliano. Sarebbe tornato per non far entrare chi avrebbe dovuto fare il turno di notte. Lui avrebbe probabilmente dormito in fabbrica, per affrontare poi un’altra giornata di mobilitazione…assemblea, corteo, blocchi, e poi un’altra giornata di lotta ancora.
A piccoli gruppi che circondano il mezzo pesante piazzato di traverso che blocca la strada si discute un po’ di tutto, mentre le torce impestano l’aria per fare colore, petardi scoppiano e piccoli focolai bruciano un po’ di sostanza infiammabile ai bordi della strada.
Paradossale che in un Paese in cui la retorica della ruspa è sfoggiata da il gemello-diverso di Renzi, Salvini, come idea-forza per una risoluzione drastica dei problemi creando un certo consenso rispetto a metodi muscolosi, quando viene realmente usata dagli operai per difendere quel risicato quadro di garanzie acquisite non viene fatta propria da chi nel movimento dei lavoratori ha la sua ragione storica.


Tra birre scolate e sigarette accese si commenta la presa di posizione degli altri sindacati metalmeccanici, si parla di vecchi episodi di tifo organizzato, sfottò per belinate combinate sul lavoro, e dei bei tempi che furono per gli ormai ex ragazzi di Corny Island: molti dei quali incanutiti, ammogliati e con bambini. 1650 famiglie che li aspettano a casa, 1650 famiglie a cui vorrebbero togliere la garanzia di un reddito dignitoso, diritti acquisiti, una visione del mondo cresciuta dentro e fuori le mura dello stabilimento, e per cui la parola operaio ha un significato che va oltre il proprio ruolo all’interno dell’apparato produttivo, ed essere operaio è una tradizione di famiglia, modesto blasone della plebe accorsa per la fame di braccia negli anni del boom economico. Cosa sarebbe Cornigliano senza l’acciaieria in questo tipo di società? Un quartiere regalato alla ruggine del post-industriale, con le saracinesche dei piccoli esercizi commercial abbassate, in cui la guerra tra poveri già in nuce diventerebbe esplosiva senza il fabbricone da fare da coagulante, e a fornire una visione del mondo, un nemico “che non è il tuo vicino” con cui scontrarsi, legami orizzontali da tessere per affermare le proprie ragioni, e forse la prospettiva di una vita migliore, almeno per i propri figli.
Una Detroit, anzi una Filnt, in sedicesimi, con molto meno verde…
Essere operai oggi è questo: una maledizione, una vita di stenti e bestemmie, guardando in faccia la fabbrica figlia diretta di un mostro (orami abbattuto) che ha succhiato sangue, inquinato l’ambiente e la vita, regalato più sofferenze che altro, ma è anche non piegarsi di fronte al barato di un futuro senza prospettive anche se pieno di incognite e contraddzioni: benvenuti nell’inferno, questa è la periferia…
Allora si continua la mobilitazione per il terzo giorno consecutivo, dal governo l’unica risposta è il cordone di polizia e carabinieri in assetto anti-sommossa, con un profilo combat: maschere anti-gas vestite e uomini con in mano il lancia-lacrimogemi che spuntano dalle torrette delle camionette che bloccano la manifestazione. Quando qualcuno gli chiede se sono consci che sono venuti a impedire un corteo di persone che lottano per il proprio posto di lavoro, rispondono che loro eseguono gli ordini che gli vengono impartiti, più o meno la stessa linea di difesa dei boia dei campi di concentramento nazisti durante i loro processi… E guarda caso è il “Giorno della Memoria”.
Non stupisce la banalità del male dei servi in divisa ma il chiaro messaggio dell’esecutivo che di fatto vuole impedire una manifestazione sindacale all’interno di uno sciopero di categoria cittadino, i margini di mediazione sono esauriti: vi immaginate Renzi che fa l’imitazione dei comici liguri nel siparietto con il turista tedesco all’ostaja che chiede cosa c’è da mangiare: o torta di riso, o ce l’hai nel culo e la torta di riso è finita!
Ma nonostante l’attesa nessuno demorde, il corteo parte verso le undici dopo una estenuante trattativa, si dice, tra questore e prefetto: oggetto pretestuoso del contendere i mezzi pesanti degli operai, guarda a caso, che non devono proseguire il corteo.
Le forze politiche che governano la città brillano per la loro assenza, memori degli insulti giustamente ricevuti per la loro totale insipienza, e lasciano alle forze dell’ordine fare il lavoro sporco: dimostrano che neanche il movimento operaio “ufficiale” non ha più un referente politico “credibile”.
Gli animi già caldi, si scaldano ulteriormente, una manifestazione partecipata e motivata, c’è lo sciopero generale della Fiom a livello cittadino e delegazioni di altri lavoratori, nonostante la mancata copertura sindacale sono venute a dare man forte.
Applausi calorosi e strette di mano ai portuali che hanno tenuto il loro presidio, all’altezza del varco di lungomare Canepa, separati dai metalmeccanici da due file di camionette, portuali che accolgono i mezzi di polizia circondandoli della nebbia di torce e razzi, e qualche botto tanto per comunicare a lor signori che la loro presenza è oltremodo sgradita.
Mentre la polizia sale per la strada che va sull’arteria superiore si passa di sotto per gabbarli, e si corre troppo tardi e in troppo pochi per non far prendere la testa del corteo alle forze dell’ordine, e le camionette partono a tutta velocità e ci precedono, comunque ne valeva la pena.
Lungo il corteo ci salutano prima i vigli del fuoco di San Benigno, e noi gridiamo in coro che rispettiamo solo loro, poi i ragazzi di un istituto superiore usciti dalle classi per farsi vedere – eccitandosi non poco per i botti -, e poi ancora chi è dentro al mercato coperto sulla strada.
Chi si spreme le cervella su quale possa essere il soggetto in grado di catalizzare la rabbia sociale latente offrendogli una possibilità di riscatto potrebbe darsi delle risposte vedendo le mobilitazioni operai di questi giorni sparse per la Penisola.
Il corteo termina in Prefettura, ed entra una delegazione: si è strappato la presenza di un esponente del governo al tavolo il 4 febbraio. Il futuro è ancora più che mai incerto, per i lavoratori dello stabilimento e di altri comparti di lavoratori di Genova. Il primo doveroso passaggio sarà lo sciopero generale cittadino affinché rivoli dispersi possano fondersi e formare una fiumana in grado di esondare contro un destino cinico e baro che vorrebbe travolgerci.
Come ha gridato per scherzo un operaio in testa alla manifestazione, modificando lo slogan più cantato in manifestazione se non c’è lavoro, c’è agitazione: se non c’è amore c’è agitazione.