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Una fotografia del presente. La battaglia dell’acciaio

Un operaio dell'Ilva di Genova durante il corteo di protesta per l'annunciata chiusura dello stabilimento, Genova, 27 novembre 2012. ANSA/ LUCA ZENNARO

Partiamo da un lungo frame durato più di un’ora al massimo livello di tensione la mattina del 26 febbraio. Lungomare Canepa, lunga strada di scorrimento veloce a Sampierdarena. Da una parte le sbarre che delimitano il porto poco prima di uno dei varchi principali d’accesso, dall’altra blocchi di cemento e spazzatura prima di alcuni edifici storici che si affacciano su via Sampierdarena. Sullo sfondo grattacieli dai colori improbabili, stanze con vetri a specchio semideserte. Il corteo metalmeccanico avanza e vede a 200 metri un imponente schieramento antisommossa. Prosegue incredulo, nessuno si sposta o torna indietro. Lo Stato ha deciso che la manifestazione non deve arrivare in centro. Il governo ha considerato che una rivendicazione sindacale moderatissima  – il rispetto di un accordo di programma istituzionale che salvaguarda livelli minimi di salario e lavoro – sia un qualcosa che non può essere difeso.

I patti vanno rispettati, dice il sindacato, i patti sono carta straccia dice il governo, il PD e tutto l’arco politico italiano. Nel mezzo ci sono quasi vent’anni che hanno cambiato tutto. Allora, ripartiamo da quell’accordo.

Dopo lunghe vicissitudini e molte trattative, agli inizi degli anni 2000 il sindacato, il padrone Riva e gli enti istituzionali  firmano un accordo che prevede la chiusura dell’area a caldo dello stabilimento di Cornigliano con la promessa di salvaguardare livelli minimi di occupazione e di salario per più di 1700 dipendenti. Cassa integrazione a rotazione, lavorazioni solo sui semilavorati prodotti altrove, 80% dello stipendio garantito. Con quell’accordo si chiude una partita lunghissima che vedeva tra l’altro la contrapposizione tra il diritto alla salute per la zona del ponente genovese intorno a Cornigliano e il diritto al lavoro.

L’Italsider pubblica era ridiventata ILVA e lo Stato la cedeva  al capitale privato tra cui spicca il padrone Emilio Riva. La maggior parte della produzione di acciaio rimaneva a Taranto. In venti anni Riva farà il bello e il cattivo tempo, macinerà profitti, distruggerà la salute di operai e cittadini di Taranto.

La chiusura di Taranto è uno dei motivi che spiega la necessità per il governo di chiudere la partita per l’accordo di programma. L’insostenibilità del tipo di lavorazione, le morti per tumore, le connivenze tra il peggior sindacato, la politica e i padroni, un livello di malaffare diffuso che colpisce cittadini inermi e lavoratori mettono in crisi il centro siderurgico più importante in Italia. ILVA passa in amministrazione allo Stato costretto a chiudere le lavorazioni e gestire le perdite. Di requisire gli impianti ai padroni nessuno ci pensa. Sullo sfondo la crisi mondiale nelle vendite dell’acciaio, cioè la sua sovrapproduzione.

La nuova cessione dell’ILVA ai privati viene data per scontata. Sembra non esserci più spazio per l’intervento pubblico. Sullo sfondo le regole dettate dalla UE che diventano le armi con le quali uno Stato viene privato di qualsiasi possibilità di gestione e pianificazione delle risorse e della produzione. Dove i diritti dei lavoratori sono una componente che da solo fastidio.

Per l’Unione Europea l’acciaio va fatto costruire da privati che possono gestire il ciclo, avvelenare intere popolazioni e quando i profitti non sono più sufficienti trasferire produzione all’estero lasciando sul lastrico i lavoratori. Nel caso specifico di ILVA si tratta di eliminare il fastidioso accordo di programma come retaggio di un’epoca in cui era possibile un compromesso. Per il governo e i governanti locali l’essenziale è vendere a un padrone che possa avere mano libera.

Questa realtà viene negata attraverso cumuli di bugie. La scadenza dell’accordo, i compromessi temporanei proposti dal PD, etc…Un accordo di per se vale poco: nello specifico si tratta di un testo sottoposto a numerose modifiche e valido solo se si ha la forza di farlo valere. La forza degli operai e del sindacato contro la forza dello Stato che pensa solo all’interesse dei padroni. Il volto dello Stato, in Lungomare Canepa è stato quello delle camionette. Quello dei lavoratori è la forza, la determinazione, la compattezza, l’appoggio della città.

Ci interessa comunque poco discutere della bontà o della validità di un accordo di programma o della strategia sindacale. La questione ILVA è anche e soprattutto una questione politica.

La lotta degli operai è contemporaneamente una lotta internazionalista e una lotta che ricade sul tessuto sociale di una città come Genova.

Lotta internazionalista perché mette i bastoni tra le ruote ai padroni dell’acciaio che faranno pagare la crisi di sovrapproduzione ovunque si trovano distinguendo poco o nulla della nazionalità dei lavoratori.

Lotta locale perché riguarda il futuro di una città di 600 mila abitanti con livelli di disoccupazione e di precarietà altissimi. In questa città il ruolo della politica è quello di deindustrializzare, eliminare il residuo di rigidità operaia che rappresenta la spina dorsale di interi quartieri.

Il consenso riscontrato in un ampio strato della popolazione così come fu la mobilitazione vittoriosa per non far chiudere il cantiere navale di Sestri Ponente, e i 5 giorni della lotta dell’AMT, è un elemento che caratterizza la lotta degli operai dell’Ilva: la forza sociale dei lavoratori e la loro determinazione diventano un patrimonio prezioso per altre fasce di proletariato e di pezzi di ceto medio impoverito che comprende i devastanti effetti della chiusura di un importante polo produttivo. E se anche il rapporto città-fabbrica ed in generale tra la metropoli e le alte concentrazioni operaie (cantieristica e altri poli produttivi, porto, municipalizzate) è sicuramente mutato, riveste tuttora una importante valenza sia per il tessuto sociale dei quartieri popolari sia per la forza che esprimono alcuni settori di classe. Questa forza è ancora più rilevante nella Superba, a differenza di altre realtà, considerata la trascurabile incisività di altre porzioni sociali della “nuova composizione di classe” sempre più numericamente importante ma fino ad ora organizzativamente poco rilevante, ed non in grado fino ad ora di agglutinare un sufficiente consenso attraverso l’espressione dei propri bisogni, e men che meno di esercitare una relativa egemonia.

Nonostante la crisi l’acciaio è un elemento fondamentale per le nostre vite. Basta girarsi e guardarsi intorno per capire quanto è importante per qualsiasi infrastruttura usata dai cittadini. Possiamo decidere di produrlo noi imponendo le condizioni del ciclo o pensare di farlo produrre in condizioni spaventose da lavoratori più deboli o ricattabili. In gioco non è quindi un accordo di programma ma il futuro di 1700 lavoratori, di una città, di un sistema-paese.

La nazionalizzazione degli impianti, il sequestro dei beni agli imprenditori e la gestione operaia del ciclo produttivo sono l’unica strategia a lungo termine che i lavoratori possono provare a percorrere. Difendere un accordo e cercare un compromesso onorevole può essere una strategia sindacale ma non politica. Il silenzio se non la complicità della sinistra istituzionale, il disinteresse mostrato verso questa lotta da gran parte dei movimenti sociali può essere giustificato con varie dosi di ipocrisia ma non fa altro che dimostrare che la sinistra che sta con i lavoratori è pressoché scomparsa o dispersa in miriadi di piccoli gruppi che non sono in grado di esercitare nessuna egemonia. Chi cerca un compromesso pensando che le condizioni sono le stesse di 15 anni fa dovrebbe fare un pensiero a quelle camionette che gli sbarravano il passo, una immagine di un futuro in cui i margini di accordo vengono ridotti sempre di più. Chi vuol cambiare la società deve cogliere questo dato di fatto per cercare di ricostruire una sponda politica a lotte che senza prospettive di potere non può altro che andare in contro a sconfitte.