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Acciaio: settore strategico, lotte sociali, salario vs reddito

attivo-Pagina001Relazione dell’attivo tenuto a Genova presso Collettivo Genova City Strike il 18 febbraio 2016

L’acciaio come settore strategico

Per iniziare la nostra discussione pensiamo che sia necessario fare una relazione introduttiva di tipo generale per cercare di inquadrare l’argomento di cui vogliamo trattare. Partiamo quindi da alcune considerazioni di base: la questione ILVA non è scindibile, in generale, da una questione complessiva riguardante il ruolo della produzione industriale nel mondo, dell’acciaio in particolare. Occorre quindi, a nostro parere, fornire alcuni dati riguardanti il ruolo dell’acciaio nella nostra società fornendo alcuni numeri di base per inquadrare la questione.
Come tutti sanno, l’acciaio è una lega principalmente tra il ferro e il carbonio. Si distingue dalla ghisa per caratteristiche meccaniche molto differenti e per percentuali inferiori di carbonio. L’acciaio è un materiale di vecchissimo uso, si ricava principalmente dal minerale di ferro (che si estrae in miniera, fuori dal territorio italiano dopo l’abbandono delle estrazioni) che viene riscaldato con il carbone coke. Quest’ultimo è il derivato principale del carbone fossile preventivamente distillato per eliminare alcune sostanze presenti al suo interno. Questa lavorazione è tipica delle cokerie (che fino a circa 20 anni fa servivano anche come forniture di sottoprodotti per l’industria chimica e per la produzione del cosiddetto gas di città ora scomparso e sostituito dal gas metano, il gas naturale che si estrare dai giacimenti principalmente in medio oriente, Russia e in America). Le cokerie generiche in Italia sono scomparse ma la lavorazione e la produzione del coke è ancora presente nelle acciaierie grandi che, per prima cosa, trasformano il carbone minerale in coke che poi diventa l’alimento dell’altoforno. Questa lavorazione è quella tradizionale (effettuata per anni a Genova, Savona e in altri luoghi e attualmente soprattutto nell’ILVA di Taranto prima del sequestro degli impianti) mentre una buona fetta della produzione avviene con il processo secondario che parte dal rottame riciclato nei forni ad arco elettrico. In Italia, dopo la privatizzazione di tutti gli impianti, il sistema ad arco elettrico che parte dal rottame ha preso il largo con stabilimenti sparsi per tutto il nord Italia e a Terni. I padroni privati dell’acciaio italiano si chiamano Riva, Arvedi, Lucchini, Marcegaglia. Il settore pubblico è totalmente assente.

Nel mondo l’acciaio viene prodotto in grandissime quantità: tra i prodotti per costruzione è secondo solo al cemento. Alcuni dati possono essere esplicativi: nel mondo vengono prodotti circa 1800 milioni di tonnellate di acciaio l’anno (che in parte negli ultimi anni è invenduto causando anche un decremento globale della produzione). Negli ultimi 15 anni la produzione e la vendita sono comunque raddoppiati. La quantità maggiore di produzione viene dalla Cina (che ne produce circa la metà del totale mondiale) seguita dal Giappone, dalla Corea del Sud, dalla Russia. In Europa se ne produce abbastanza e l’Italia è storicamente tra i maggiori produttori mondiali seconda, nel continente, solo alla Germania. Nel 2014, secondo l’organizzazione padronale Federacciai, la produzione italiana è stata di 23,7 milioni di tonnellate a fronte di un consumo apparente di 25,5 milioni di tonnellate. In sostanza l’Italia produce ciò che usa ma in realtà compra acciaio dall’estero e esporta il proprio prodotto. Nonostante le difficoltà congiunturali (la crisi dal 2008 ad oggi ha influito negativamente sulle vendite che comunque erano in ripresa nel periodo tra il 2010 e il 2011 e sono diminuite solo negli ultimi rilevamenti) il profitto per le imprese e i padroni sfiora tutt’ora i 33 milioni di euro (con un decremento del 16% negli ultimi due anni). Nel settore lavorano, senza considerare l’indotto, circa 35 mila lavoratori.

Metà dell’acciaio globale è prodotto comunque in Cina che subisce dazi alla vendita, giustificati con il non rispetto delle norme ambientali. Da parecchio tempo questa situazione protegge in parte le industrie degli altri paesi ma il potenziale ingresso cinese
nel WTO potrebbe far cambiare la situazione. Questo spiega anche, le manifestazioni comuni di sindacati e imprenditori che ci sono state in questi giorni.

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Illustrazione 1: Produzione mondiale acciaio 2014. Serie storica. Fonte Relazione Federacciai 2014

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Illustrazione 2: Acciaio Unione Europea 2014. Produzione principali Stati. Fonte: Relazione Federacciai 2014

Abbiamo riportato questi dati perché ci appaiono significativi. Proviamo ad articolarli schematicamente:

1) La produzione di acciaio è tendenzialmente in crescita sul lungo periodo. Questo serve a far capire che spesso l’apparenza inganna. L’acciaio è fondamentale per parecchi settori (dalla locomozione, alle costruzioni fino agli apparecchi sanitari etc…, non è sostituibile da altri materiali con le stesse caratteristiche. Se ne consuma continuamente in grandi quantità in alcuni paesi specifici (ad esempio la Cina impegnata in un continuo processo di inurbamento di grandi quantità di lavoratori) ma anche nei paesi centrali del capitalismo. Qualsiasi discorso sull’obsolescenza di questo materiale cozza contro la realtà di numeri che raccontano una storia completamente diversa.

2) L’acciaio è per gran parte un prodotto che si ottiene da processi (industriali e comunque pericolosi) di riciclo che non c’entrano con gli altoforni a coke o con la distillazione del
carbone fossile. Metà dell’acciaio italiano è prodotto con forni ad arco elettrico. Rimane il fatto che, la più grande acciaieria d’Europa, quella di Taranto, usava il metodo tradizionale, era ed è piantata nel centro di una città con tutto quel che ne consegue.

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Illustrazione 3: Proiezione sulla ripartizione tra diverse produzioni di acciaio per il ventunesimo secolo

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Illustrazione 4: Dislocazione impianti acciaio Italia 2009. Rosso forni elettici. Verde altoforni ciclo integrale

3) La dismissione della produzione di acciaio in Italia non significherà quindi che l’acciaio non verrà più prodotto. Il capitale internazionale non ragiona in questo modo ma in termini di vendita e profitti. L’acciaio verrà quindi prodotto in altri luoghi dove il rapporto tra tutela
del lavoro e ambiente non è sicuramente al livello (comunque non sufficiente) italiano ma a livelli sicuramente peggiori

4) La crisi di sovrapproduzione che si realizza in questi ultimi due anni è dovuta alla congiuntura economica. Non è qui la situazione giusta per discutere di quanto può durare questa crisi, se il capitalismo ne uscirà e come, se si preparerà (come è sempre più drammaticamente possibile) un periodo di guerra. Ovviamente rimangono ancora valide alcune costanti: in un sistema capitalista globale a pagare le crisi del capitale sono i lavoratori in Italia e in tutto il mondo. Se ci sarà una ristrutturazione la pagheranno gli addetti e non i padroni, se ci sarà una guerra l’acciaio diventerà un settore ancora più strategico. La lotta dei lavoratori ILVA è quindi, come sempre ma ancor più evidente in questo caso, una lotta internazionalista. Se cediamo qua, non si capisce perché non si debba rendere la situazione ancor più difficile ai milioni di addetti del settore sparsi in Cina e negli altri paesi produttori.

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Illustrazione 5: Variazione del consumo di acciaio in Italia. Serie storica, Relazione Federacciai 2014

Salario versus reddito

In questi giorni abbiamo letto e abbiamo sentito alcuni compagni, a noi anche cari, sostenere che la lotta degli operai ILVA è una lotta sacrosanta ma in realtà di retroguardia. Non è, ovviamente, nostra intenzione discutere di questo polemicamente. E’ opportuno però spiegare perché noi pensiamo e vorremmo agire in modo diverso. La contestazione, in soldoni, è che si maschererebbe una lotta per il reddito sotto il velo di una lotta per il lavoro (e quindi, se le parole hanno un senso, per il salario). Questo raccoglierebbe la sensibilità di una città che si definisce “antropologicamente operaia” ma che in realtà non lo sarebbe più. La necessità sarebbe quella di chiudere definitivamente una stagione tramontata e impostare una nuova unità “di classe” sul tema del reddito (variamente declinato con aggettivi roboanti: universale, di cittadinanza, etc…) sganciato da una produzione che non ha più ragion d’essere. Cerchiamo quindi di spiegare perché siamo diametralmente contrari a questa analisi.
Sulla necessità strategica reale di produrre acciaio ci siamo già soffermati in precedenza. Decisamente ci pare che l’idea che in Italia (o in altri paesi centrali del sistema capitalista) non sia più necessario produrre un manufatto che continua ad essere indispensabile, sia un’idea che, a voler essere dialettici, ha la vista corta, a voler essere cattivi puzza di colonialismo. Nel momento che l’acciaio è indispensabile non si capisce perché lo debbano produrre altri (e magari ammalarsi di cancro in paesi dove il costo del lavoro è
inferiore). Inoltre occorrerebbe rivendicare un reddito sganciato da una produzione che sarebbe comunque in mano ad altri. Uno sguardo non provinciale ci sembra quindi già di per se decisivo per rimandare al mittente alcune teorie politiche.
Vero è che la composizione di classe è cambiata in Italia e anche nel mondo. Genova è un caso particolare ma anche la nostra città ha subito un processo di deindustrializzazione, precarizzazione etc…
Se sosteniamo che in assoluto la forza numerica della classe operaia è diminuita fortemente diciamo quindi la verità ma occorre comunque uno sguardo più attento. Innanzitutto sul processo di proletarizzazione di larghe parti del globo che costituiscono la cosiddetta fabbrica del mondo. In secondo luogo bisogna verificare i dati per scoprire che, anche in Italia, il peso del lavoro salariato è ancora imponente. In questi anni sono state fornite numerose ricerche. Non è qui il caso di approfondire, di questo ci siamo già occupati in passato e altri (“Dove sono i nostri” del collettivo Clash City Workers è un buon esempio) lo hanno fatto. Il Jobs act, in effetti, altro non è che il tentativo (ahinoi riuscito) di infliggere un ulteriore colpo al cosiddetto lavoro garantito allargando la platea di precari. Ma pur sempre di salariati si tratta…
L’idea che alcune garanzie (tipo quelle degli operai ILVA o dei dipendenti delle partecipate) siano obsolete o un freno al reddito universale le lasciamo volentieri ad altri. Gli operai organizzati hanno ancora forza contrattuale perché ancorati alla produzione; non bisogna essere particolarmente dotti di Marx per capire che questo rappresenta un possibile punto di forza. E questo possibile punto di forza può essere usato per ribaltare i rapporti di forza sfavorevoli se si salda alle lotte nelle città. E’ quindi il concetto che ribaltiamo: non devono essere i salariati a lottare per un reddito sganciato dal lavoro ma i precari ad unirsi nella lotta degli operai garantiti perché hanno forza e la loro posizione li garantisce in quanto potere operaio effettivo.
Abbiamo in effetti due scelte: o ci uniamo alle lotte dei lavoratori cogliendo l’occasione per parlare di salario diretto e anche di salario differito (tariffe, bollette, affitti etc…) o ci mettiamo da parte perché ci trinceriamo dietro la fine della necessità del lavoro o, per consolazione, ci lamentiamo del fatto che nelle lotte sociali dei movimenti il casco dei poliziotti è sempre rimasto al suo posto?
Aiutiamo la resistenza di chi rivendica ancora qualche minimo diritto perché pensiamo che in prospettiva occorra lottare per il potere (politico, su cosa e come produrre) o ci accontiamo di essere sudditi di un governo illuminato che sostiene il consumo di beni prodotti altrove?
Noi pensiamo che occorra difendere diritti, tutele e salari. Sappiamo che questo significa attrezzarsi per contrattaccare. Senza quella forza operaia che è tutto (ed è qualcosa che va al di la dell’antropologia) non possiamo fare nulla.

Una lotta che riguarda la città nel suo complesso

Genova ha il 15% di disoccupati, il 40% di disoccupazione giovanile, una massa di precari e di lavoratori dei servizi. Ha enormi quartieri periferici che cambiano continuamente pelle. Sugli scheletri delle fabbriche crescono capannoni artigiani, hotel anonimi, supermercati enormi. E’ cambiata e sta cambiando la popolazione con l’immigrazione. La condizione che cresce è quella della crisi, della povertà, della guerra tra poveri, del razzismo. Gli insediamenti operai, pur residui, sono ancora un argine per una parte di territorio, per l’indotto, per i negozianti. Sono ancora un tessuto per un quartiere dove l’ombra del razzismo e del fascismo sembra sul punto di esplodere. Per questo la lotta dell’ILVA riguarda tutti perché è una lotta per mantenere un peso nel movimento dei lavoratori. E’ una lotta antifascista perché difende un tessuto operaio che rischia di svanire.
E quando svanisce un tessuto se ne ricostruisce subito un altro fatto di appartenenze etniche, usi costumi, religioni. Questa prospettiva prosciuga il mare della sinistra e dei
comunisti.
Siamo tutti colpiti dagli ultimi episodi genovesi legati ai razzisti e ai fascisti. Invadono le scuole, alimentano la loro immagine nei media etc…La lotta dell’ILVA e a difesa del tessuto produttivo è quindi una lotta antifascista perché è contro le condizioni che alimentano il virus dell’intolleranza, della rabbia etnica.

Le parole d’ordine e la necessità di ricostruire una forza politica di classe

Si potrebbe a questo punto discutere della qualità dell’azione sindacale, della validità dell’accordo di programma, delle differenze tra la FIOM di Genova e Taranto, dei sindacati gialli, etc…. Noi non pensiamo che sia il nostro compito. Siamo ovviamente lavoratori, alcuni di noi sono sindacalizzati ed abbiamo anche delle idee in proposito ma siamo soprattutto un collettivo politico e ci occupiamo principalmente di questioni politiche. Abbiamo quindi spiegato che la lotta dell’ILVA è centrale e la nostra solidarietà con i lavoratori e la loro lotta è incondizionata. Detto questo è impossibile non vedere che, dal punto di vista propriamente politico, la questione principale è quella della proprietà. Non si può pensare che, a lungo termine, sia possibile difendere questo segmento produttivo lasciandolo in mano alle multinazionali o al mercato globale. La parola d’ordine politica è quindi quella della nazionalizzazione, dell’esproprio al padrone per risanare la produzione e renderla sostenibile dal punto di vista ambientale. Per fare questo la proprietà pubblica è necessaria ma non è sufficiente, serve il controllo diretto dei lavoratori sulla produzione dell’acciaio che, utilizzando un termine che continua a non piacerci, è da considerare un bene comune fondamentale come l’energia elettrica o l’acqua.
Agitare queste parole d’ordine è quindi il nostro compito per fornire una prospettiva politica alle azioni di solidarietà concreta (segnaliamo con enorme piacere il lavoro fatto ad esempio dai lavoratori portuali o la solidarietà di altre aziende genovesi) che comunque abbiamo provato a mettere in campo. Una parte della sinistra ha agito in questo senso, una parte non lo ha fatto ma continueremo ad insistere perché si assuma questo pezzo di responsabilità.
Detto questo, uno striscione, un volantinaggio, una rassegna stampa sui canali di informazione che utilizziamo, un attivo come questo, sono poca cosa rispetto a cosa sarebbe necessario.
Lo stop temporaneo ottenuto dall’azione dei lavoratori è positivo e ci indica quale è la strada, quella della lotta. Rimane il fatto che le nostre parole d’ordine si scontrano con una realtà difficilissima: lo strapotere dei padroni, i trattati neo liberisti che sono la ragione fondante dell’Unione Europea e la mancanza di qualsiasi traccia di una organizzazione politica forte e radicata che fornisca una sponda a queste lotte. Questo attivo è quindi anche per ribadire la necessità di stabilire forme di coordinamento tra chi si assume queste parole d’ordine. Non intendiamo negare le difficoltà e non abbiamo intenzione di rimettere su iniziative di coordinamenti di scopo che falliscono inevitabilmente. Rimane la necessità, pur difficile nella pratica, all’interno di un panorama di lotte non generale, di un processo di ricostruzione paziente di una forza di classe, anche attraverso unità politiche e ricomposizioni. Questo, per noi, è un compito che non può essere bypassato. Lo ribadiamo e mettiamo a disposizione situazioni anche di dialogo e chiarificazione come queste per ribadire questo obiettivo strategico che vogliamo perseguire.

Genova City Strike/Noi Saremo Tutto