Approfondimenti

David Harvey e il dramma della modernità

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Indice:

1) Il cinema come simbolo della cultura postmoderna

2) Postmodernismo: una definizione controversa

3) Lo shock totalitario e le guerre mondiali

4) Le contraddizioni del capitale dopo i trenta gloriosi

5) L’intellettuale organico dalla Resistenza all’alienazione urbana

6) Il postmodernismo come cultura adatta al moderno sviluppo del capitale

7) Contro il postmodernismo?

1) Il cinema come simbolo della cultura postmoderna

Non esiste in effetti nulla come il cinema che possa esemplificare fino in fondo e dare un più alto livello di comprensione su cosa si intende per postmoderno. Il testo di David Harvey “La crisi della modernità” edito nel lontano 1990 e ristampato nel 2015 per le Edizioni Il Saggiatore usa un intero capitolo partendo da due peculiari visioni del postmoderno: “Blade Runner” di Ridley Scott e “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders. In Blade Runner figura centrale è quella dei replicanti. Sono uomini robot indistinguibili dagli umani rispetto ai quali hanno maggiori capacità e di cui riescono addirittura a replicare i sentimenti. La loro forza è tale che, per evitarne la proliferazione e la rivolta contro i creatori, sono stati programmati per vivere solo 4 anni. Si aggirano in uno scenario postindustriale decadente, ma è solo la città di sotto. La città superiore è quella delle élite finanziarie e industriali, scintillante, tecnologica e lussureggiante. Vi è poi la città ai lati in cui pullula un sistema industriale diffuso costituito da comunità etniche intente a costruire il materiale in subappalto per le grandi aziende.

Esteticamente opposto rispetto a Blade Runner il film di Wenders ha come protagonisti varie figure in grado di sottolineare diversi soggetti visti nell’ottica di una società postmoderna.

Esteticamente opposto rispetto a Blade Runner il film di Wenders ha come protagonisti varie figure in grado di sottolineare diversi soggetti visti nell’ottica di una società postmoderna. Da una parte gli angeli che vivono in un modo sospeso senza tempo né spazio, dall’altra un vecchio abitante di Berlino che si trova a vagare in una città che non riconosce più e ripercorre il filo della memoria nei luoghi. Il terzo soggetto, diversi abitanti ripresi all’interno del quotidiano, è collettivo e viene ripreso in vari momenti di una vita quotidiana fatta di frammenti e non di storie con un fine o uno scopo evidente. Il punto centrale è nella riflessione del vecchio berlinese che usa la biblioteca e le immagini del passato per riallacciare un filo della memoria che possa ricomporre la frammentazione della Berlino moderna. Le immagini riportano però a un passato non particolarmente rassicurante; la seconda guerra mondiale e il nazismo sono quindi il passato che non deve ritornare e il loro richiamo rappresenta la causa della frammentazione odierna. Postdammer Platz è un luogo centrale dove il presente è suddiviso in frammenti privi di divenire ma è anche la vecchia piazza luogo dell’orrore delle sfilate naziste. E’ quindi opportuno riprendere il filo del divenire ricostruendo frammenti del presente o significa ricomporre l’orrore della storia nel passato? Per una maggiore comprensione ci pare opportuno analizzare, per contrasto, come sia possibile ancora oggi arrivare alla comprensione di massa anche con un cinema che non è catalogabile all’interno del postmoderno. Proviamo a spiegarlo attraverso l’opera di Ken Loach. Il regista inglese (non a caso da alcuni critici giudicato con sufficienza come un militante politico che usa il cinema per altri scopi) è noto per opere che seguono criteri narrativi lineari, con un filo narrativo e degli obiettivi ben precisi. Le opere di Ken Loach (dalle opere di fiction fino ai documentari) sono a tesi e mantengono all’interno della loro struttura fortissimi elementi pedagogici e didascalici. Durante Terra e Libertà i rivoluzionari repubblicani passano parte del loro tempo a spiegare ai contadini l’opportunità e la necessità della collettivizzazione dei terreni. In La canzone di Carla vi è una parte in cui il rivoluzionario sandinista spiega per filo e per segno l’azione dell’imperialismo USA nella regione. In In questo mondo libero il padre della ragazza che gestisce in maniera particolarmente disinvolta una agenzia di lavori temporanei spiega alla figlia come gli stranieri siano usati dai padroni e dagli sfruttatori per abbassare il costo del lavoro (spiegando altresì che questo non vuol dire per niente di essere d’accordo con la destra o con i fascisti). In Paul, Mick e gli altri, i sindacalisti spiegano ai colleghi il perché di una lotta necessaria contro la privatizzazione del sistema dei trasporti. Loach non si limita a inserire il contenuto politico in storie lineari ma si sofferma in chiarimenti e offre spesso spiegazioni abbondanti sul testo filmico. Che una struttura del genere faccia storcere il naso ad una critica postmoderna non stupisce. In realtà, il cinema di Loach è comunque significativo anche secondo altri punti di vista. In particolare è facile notare che, nonostante il tentativo di parlare e fornire storie utili per il presente, spesso le voci dei protagonisti parlano del passato glorioso (la Guerra di Spagna, la rivoluzione Sandinista, il conflitto anglo-irlandese) o in qualche modo si riferiscano a gruppi sociali o a personaggi che rappresentano vecchie scuole legate a residui di un’epoca passata (i sindacati delle ferrovie sono i rappresentanti di una struttura produttiva che nasce e si sviluppa all’inizio del secolo e che oggi è sotto continuo attacco, il padre di In questo mondo libero è ovviamente un vecchio laburista isolato e abbastanza rancoroso). Laddove l’elemento della narrazione si sofferma sul presente (My name is Joe, Sweet sixteen o Riff Raff) l’elemento didascalico è legato principalmente alla struttura della storia dove prevale invece un elemento tragico in cui emerge solo la difficoltà a progettare un diverso futuro. Ovviamente sarebbe in qualche modo complicato aderire a una struttura realista caricando ideologicamente personaggi immersi in un quadro di relazioni che sembra fatto apposta per negare ogni forma di alternativa.

2) Postmodernismo: una definizione controversa

La nozione di postmoderno sconta un vizio di origine: essendo legata al superamento del modernismo richiederebbe di superare una nozione di per sé controversa. Nasce quindi una categoria analitica che supera cose già di per sé con significati molto frammentari o addirittura divergenti. Per capire quindi il postmodernismo occorre dapprima capire il modernismo. Per farlo si risale alle radici dell’illuminismo e della fiducia nella ragione umana come fattore del divenire della società. L’illuminismo diventa quindi la fonte primaria della filosofia che vede un fine nella storia e persegue un progetto di trasformazione. Il modernismo è quindi l’insieme delle rappresentazioni che vogliono rappresentare nei campi della cultura l’aspirazione a una società diversa costruita sulla forza della ragione. L’obiettivo primario di Harvey è quindi quello di tracciare un profilo del modernismo cominciando proprio dalle sue multiple valenze. Riprendendo le parole di Baudelaire sul significato dell’arte nella modernità emerge da subito che la vita all’interno delle società moderne è in bilico tra una situazione il cui divenire prossimo è in qualche modo chiaro e una sensibilità del presente molto frammentaria e legata ad esperienze effimere(1). Se il divenire è un qualcosa che può essere inserito in un piano di sviluppo legato alla scienza e alla ragione, il presente è uno shock legato all’esperienza immediata di chi rimane indietro mentalmente rispetto al progresso industriale, scientifico e tecnologico. Dai primi anni del 900, il modernismo si affianca quindi ai progetti di transizione della società che derivano dallo sviluppo della rivoluzione industriale. Questi progetti nascono partendo dall’idea che lo sviluppo debba avere un fine cosciente. Il fine però diventa subito elemento di divaricazione. Per i marxisti diventa l’uguaglianza sociale e l’abbattimento delle classi con al centro l’azione cosciente della classe operaia. Per la destra diventa l’esaltazione di uno spirito che si incarna in miti presi dalle religioni o da simboli ancestrali. Per il capitale il fine è il profitto come fonte di arricchimento e di innovazione che eventualmente si può anche redistribuire nella sua versione liberal o umanitaria.

Per capire quindi il postmodernismo occorre dapprima capire il modernismo. Per farlo si risale alle radici dell’illuminismo e della fiducia nella ragione umana come fattore del divenire della società.

Dal primo punto di vista prende spunto il modernismo che affianca lo sviluppo del socialismo dalla rivoluzione di ottobre in avanti. Dal secondo progetto di trasformazione prende avvio la reazione fascista. Dal terzo l’economia capitalista. Tutto questo ha un corrispettivo nelle arti e nelle costruzioni dove si colgono elementi estetici comuni pur tra le diverse espressioni del fine sociale. Si badi però che la somiglianza estetica rimane in superficie mentre le differenze di impostazione sono comunque divergenti. Il modernismo non è quindi soltanto una manifestazione legata alle alternative storiche del capitalismo e dell’economia di mercato: anche nei sistemi capitalisti assume un valore determinante. Harvey considera soprattutto gli Stati Uniti d’America a cavallo tra i due conflitti mondiali. Il concetto è che il modernismo è conseguente allo sviluppo di economie di piano. Negli Stati Uniti e nell’occidente dopo la seconda guerra mondiale tale piano è il fordismo-keynesismo, metodo di produzione che si sviluppa in forme peculiari anche nelle economie socialiste e che viene abbondantemente sfruttato anche nei regimi fascisti fino al 1945. Come si passa dunque dal modernismo al postmodernismo? Qui le strade interpretative sono diverse. Esistono strade più culturali e altre più legate a una interpretazione materialistica della società. Harvey le sviluppa entrambe per poi arrivare alla conclusione che la prima versione è quella secondaria. Cominciamo quindi a seguire il ragionamento proposto.

3) Lo shock totalitario e le guerre mondiali Lo sviluppo porta alla guerra?

Cosa sedimenta nella cultura e nei modi di pensare un periodo storico che culmina nello sterminio dei lager nazisti spesso accumunati nella retorica postmoderna con i gulag sovietici? Quale progetto porta allo sterminio? Lo sterminio è legato direttamente alla pretesa di progettare una società utopica? Tutta la prima parte del novecento è legata alla presenza di forti narrazioni per una società futura. A essere messa in relazione allo sbocco totalitario è l’idea stessa di coerenza e di un fine nello sviluppo. Questo porterebbe inevitabilmente allo sviluppo di una società irrigimentata totalitaria. Eppure questo è stato l’elemento centrale della cultura nel primo novecento. E’ stato il cuore del progetto di costruzione delle città, dell’industria, delle comunicazioni e dei trasporti. Ha avuto la sua correlazione nel realismo letterario, nella cultura pedagogica atta a costruire un’idea concreta di mondo e del suo possibile divenire. Si noti bene che tale idea modernista sconta tutte le differenze di impostazione che abbiamo visto prima. La tensione interna fa sì che il realismo si affianchi all’arte astratta e lo sviluppo segua canoni differenti perché opposta è l’idea dell’avvenire. Però, se solo esiste un fine da perseguire, questo sarebbe l’origine dell’orrore, del totalitarismo, dello sterminio o dei disastri dell’economia. Questa riflessione tocca ovviamente le corde della sinistra libertaria che rinasce e ricomincia a far sentire la sua voce dopo la seconda guerra mondiale. Questa sinistra gioca le sue carte nei movimenti globali degli anni sessanta e settanta che scuotono le fondamenta di un sistema in cui la presenza pervasiva del lavoro alienato sembra accumunare il sistema socialista e quello occidentale capitalista.

4) Le contraddizioni del capitale dopo i trenta gloriosi

Ma la guerra è il prodotto dell’azione di uomini che agiscono in base ad impulsi di distruzione, oppure è lo sviluppo stesso del capitale e dell’accumulazione ha crearne le condizioni? Per i marxisti la risposta sembra scontata. Per altre culture no. Allora, dal punto di vista dei materialisti storici, emerge la necessità di andare a scavare sotto il livello delle apparenze e indicare la fonte primaria sia dei fenomeni sociali sia dello sviluppo delle culture conseguenti. Da questo punto di vista (mirabilmente espresso nella parte centrale del testo) ciò che determina quindi lo sviluppo del post modernismo è il passaggio dall’accumulazione di tipo fordista all’accumulazione flessibile. Passaggio legato alle contraddizioni interne del sistema che ha funzionato fino alla metà degli anni 70 e poi viene sostituito dal sistema economico che ancora oggi è in vigore. Ovviamente l’analisi di Harvey si ferma prima ma alcune delle conseguenze che vedremo in azione nella crisi attuale sono già in nuce. Cosa accade? L’analisi di Harvey diventa quindi l’analisi di un fenomeno (per niente nuovo e ciclico) che viene denominato accelerazione spazio-temporale (oggi si direbbe globalizzazione finanziaria). Il post modernismo è quindi l’insieme di culture, stili di vita, costruzione del consenso che accompagna il nuovo modello di sviluppo. Ma prima di capirne le caratteristiche, cerchiamo di comprendere meglio come la distanza teorica tra l’interpretazione di un fenomeno secondario invece del fenomeno primario possa influenzare il giudizio che ci proponiamo di dare. Utilizziamo per semplicità l’analisi dell’opera di uno dei più famosi scrittori italiani del dopoguerra Italo Calvino.

5) L’intellettuale organico dalla Resistenza all’alienazione urbana

La data simbolo che tutti indicano per un cambio di fase nella letteratura di Calvino è il 1956 rappresentato storicamente dall’intervento sovietico a Budapest. Per Calvino, fino ad allora intellettuale in qualche modo organico al movimento comunista, comincia un periodo di ripensamento che lo allontanerà sempre di più dai canoni di una letteratura al servizio di un’idea verso i canoni di una letteratura in qualche modo legata al postmoderno. Nel libro Il sentiero dei nidi di ragno Calvino narra l’epopea di un ragazzo nella lotta partigiana. I critici letterari metteranno in evidenza come, già in quest’opera, vi era in nuce la distanza di Calvino da ogni forma di realismo o di pedagogia rivoluzionaria. Può essere vero, ma è indubitabile che, a un certo punto, l’opera di Calvino si distacca da ogni forma anche superficialmente realista per concentrarsi sull’analisi della frammentarietà nella vita sociale fino ai giochi letterari tipici di analoghi movimenti in Francia e in altri paesi. Non vogliamo qui esprimere giudizi di merito (per chi scrive le opere di Calvino hanno tutte fondamentale importanza e si può tranquillamente considerare la seconda parte dell’opera dello scrittore come la più interessante e godibile) ma mettere in evidenza come l’analisi di alcuni passaggi storici possa influenzare l’opera di artisti con elevata sensibilità sociale. Qui Calvino non esprime un giudizio solo morale sui fatti di Ungheria, e se lo fa non è molto importante, ma sembra ammettere che questi fatti mettono in crisi l’idea stessa di trasformazione sociale incarnata nello sviluppo del socialismo. Da lì a pochi anni l’URSS entrerà in una nuova fase con la destalinizzazione e la successiva stagione brezneviana con la stagnazione. Saranno anni in cui la fase propulsiva dell’economia sovietica tenderà a scemare fino ad accumulare il ritardo che porterà alla caduta del sistema. Come immaginiamo questo fenomeno? In superficie come una storia di complotti (Krusciov contro Stalin, Breznev contro Krusciov, Gorbachev come un agente più o meno volontario dell’imperialismo, etc…) o di incapacità personali, al fondo come una impossibilità o incapacità di rispondere ai cambiamenti rivoluzionari che il sistema capitalista metteva in campo anche in contrasto all’economia pianificata e al progetto mai ufficialmente negato dello sviluppo verso la società senza classi. Non si tratta, si badi bene, di negare la possibilità per i soggetti (partiti, leader più o meno carismatici, etc…) di intervenire, accompagnare o tentare di rallentare i processi intrinseci del capitale ma si tratta in fondo di capire come tali meccanismi siano il cuore e il motore delle trasformazioni. In questo senso la scelta postmoderna non è più una reazione morale o culturale verso un tradimento ideale ma diventa un adeguarsi a mutate condizioni sociali.

6) Il postmodernismo come cultura adatta al moderno sviluppo del capitale

Le caratteristiche del postmoderno sono ben individuate da Harvey, per la loro elencazione si rimanda al testo (di cui questo scritto vuol essere uno stimolo allo studio e alla lettura). In una foto allegata l’autore di diverte addirittura a elencare in due diverse colonne i termini contrapposti o conseguenti che rappresentano le caratteristiche del modernismo e del post modernismo. Si noti come ad un certo punto si passi direttamente dall’analisi di questa dicotomia all’analisi della dicotomia che ora viene considerata come principale quella tra accumulazione fordista e accumulazione flessibile. Come questa dicotomia rappresenti quindi il centro del discorso culturale degli ultimi 50 anni è quindi evidente. Ovviamente, il postmodernismo non può che essere contraddittorio perché si oppone a una cultura che lo era di partenza e, come il modernismo, e lo possiamo vedere diviso tra una destra e una sinistra. Per capire di più bisogna però ricorrere a uno dei cuori teorici della nuova cultura dominante: l’impossibilità di progettare e provare a realizzare un futuro e una società diversa. Questa ipotesi ha anche una sua versione libertaria e di sinistra, teorie che hanno accompagnato e alimentato lo sviluppo del postmoderno. Qui il testo di Harvey si limita a dei cenni ma la questione va approfondita. Nel 1968 infatti una cultura con tratti fortemente libertari prende la guida di parte del movimento di trasformazione sociale a sinistra. A essere contestato non è solo lo sviluppo capitalistico ma l’idea stessa di sviluppo, la cultura del lavoro vista come cultura dell’alienazione tout-court. L’obiettivo non è più solo la contestazione della società di mercato ma a essere messa alla gogna è tutta la precedente cultura del movimento operaio. Questa scossa può essere considerata in parte una reazione alla stagnazione e all’arenarsi del movimento rivoluzionario internazionale, quindi per certi versi positiva, ma in realtà ottiene come risultato lo spostamento dell’attenzione dalla classe a una indistinta categoria di cittadini su cui ogni indistinto potere (quello sovietico come quello capitalistico) esercita una dittatura diffusa non tanto su un soggetto sociale (la classe operaia) ma sui corpi. Sono concetti che evolveranno grazie soprattutto alla diffusione delle idee del filosofo Michael Foucault inventore della nozione di biopolitica che influenza tutt’ora ampi livelli di dibattito teorico. Queste idee allontaneranno il movimento di contestazione, soprattutto studentesco, dalle rivendicazioni di classe viste come superate o addirittura reazionarie. Lo sviluppo e la vittoria teorica di queste idee si realizza anche grazie alla possibilità del capitale di ingabbiarle come teorie critiche all’interno del proprio processo di dominio. Contemporaneamente le idee postmoderne di sinistra prendono anche altre strade per certi versi più tradizionalmente legate alla lotta delle classi. Lo sviluppo dell’operaismo che per successive variazioni sfocerà nell’Italian Theory sta all’interno di una visione postmoderna della società. Accompagna cioè lo sviluppo del capitale flessibile e del nuovo modello di accumulazione legandolo non propriamente allo sviluppo intrinseco del capitale come processo economico ma come risultato in qualche modo liberatorio della lotta di classe. Secondo questa versione la precarietà, la dismissione delle strutture organizzate del movimento operaio e altri risultati del passaggio all’accumulazione flessibile hanno anche un portato liberatorio perché sottraggono, in potenza, dalla schiavitù del lavoro salariato. In questo senso la teoria generale del valore in Marx sarebbe superata(2) e la contraddizione fondamentale non sarebbe più tra il lavoratore salariato e il padrone ma tra un impero finanziario globale e una indistinta moltitudine. Risultato di queste teorie è comunque l’idea di fondo che porta a concepire ogni idea organizzata rivoluzionaria come un passaggio non riproponibile nella società odierna e a considerare preminente l’idea della lotta politica, non come passaggio di lungo periodo da costruirsi attraverso il recupero della coscienza di classe e attraverso passaggi di transizione, ma legata all’evento in se che, sommato e/o in alternativa alla creazione di eterotopie (creazione di spazi liberati nelle metropoli come elementi di comunismo e liberazione realizzati anche per pochi soggetti) porterebbe alla liberazione. Per alcune teorie la liberazione diviene quindi individuale o di piccoli gruppi, per altri mantiene comunque la dimensione collettiva. Contro queste teorie (che comunque hanno avuto anche effetti positivi e di stimolo contro la sclerotizzazione dell’analisi marxista) Harvey propone di recuperare il materialismo storico. Ovviamente sfruttandone la relazione con la dialettica e quindi aggiornandolo alla mutata situazione sapendo che muterà ancora. Nel libro non viene approfondita questa possibilità ma solo accennata. Altri libri di Harvey su questo saranno più espliciti(3).

7) Contro il postmodernismo?

Avendo chiarito il legame tra lo sviluppo e la penetrazione in ogni campo del postmodernismo con lo sviluppo dell’accumulazione flessibile e avendo messo in evidenza le criticità della sinistra postmodernista (in tutte le sue varianti tra loro più o meno compatibili) verrebbe in mente di lottare contro il postmodernismo in politica, nella cultura e nella società. Da un lato è impossibile non avere chiaro che il passaggio dall’etica all’estetica, dai processi collettivi ai processi leaderistici, dalla preminenza della parola e del ragionamento alla futilità delle immagini o il passaggio dal processo rivoluzionario all’evento mediatico rappresentano un cambiamento i cui effetti creano notevoli problemi di comprensione e di elaborazione. Il problema è allora immaginare quale lotta possiamo ingaggiare contro l’attuale modello di accumulazione (col suo carico di ineguaglianze, sofferenze e lutti globali). La tendenza da evitare è quella di ingaggiare una lotta di pura retroguardia immaginando il modernismo come l’età dell’oro. In questo senso, se cadiamo in questa trappola, possiamo tranquillamente immaginare che ciò che ci serve è la rimessa in campo di una narrazione credibile qualunque essa sia. Questa idea è piuttosto facilmente contestabile ma è direttamente responsabile di una serie di teorie che in nome della lotta alla modernizzazione immaginano al ritorno a comunità primitive o addirittura cercano rifugio in miti del passato(4). D’altra parte è il postmodernismo stesso a mettere in luce una possibile via di fuga in questo senso. La rinascita di miti religiosi o magici, la fiducia nei metodi tradizionali di organizzare la famiglia o di curarsi, il ritorno dei miti nazionali affiancati alla figura di leader carismatici sono infatti compatibili e accettabili con i nuovi sistemi di dominio. Per scendere sul pratico sono alla base della penetrazione di molte culture critiche della società dal mito della decrescita al rossobrunismo. Come questo sia inutile o dannoso non vale la pena di spiegarlo. Eppure dovremo aver chiaro cosa significa rimettere al centro della discussione il materialismo storico. Se lo facciamo allora cominciamo ad aver chiaro che l’accelerazione spazio temporale e la globalizzazione non sono specifici del nostro tempo ma sono fasi già vissute in modo ciclico in passato(5). Dovremmo aver chiaro che il capitale continua nella sua opera di rinnovamento e nella creazione di nuove condizioni di crisi a cui normalmente risponde con salti che creano nuove condizioni di accumulazione: ciò significa turbolenza e guerra. Dovrebbe essere chiaro che lo sviluppo ineguale sposta a livello globale una serie di contraddizioni che si muovono spazialmente e la visione occidentale della cultura e della società e i soggetti che incarnano il cambiamento sono diversi nelle varie regioni del globo. Soprattutto dovremo avere la capacità di studiare nell’attuale sviluppo del capitale dove sono dislocati i centri di accumulazione e individuare quelli più vicini a noi e più vulnerabili. Senza dimenticare che la prospettiva dei comunisti è sempre e comunque l’internazionalismo dovremo individuare dove e a quale livello (dai quartieri alle valli fino alle nazioni in senso classico) è possibile creare le condizioni per lo sviluppo di lotte anche spurie cercando di valorizzarne la valenza di classe. Cercando all’interno delle complessità del presente di sviluppare il più possibile lotte reali che hanno bisogno di una teoria complessiva di trasformazione per non arenarsi nel localismo. Queste cose rendono evidente oggi ancora con più urgenza e necessità di quanto era in passato la necessità di organizzarsi quanto più possibile in intellettuale collettivo. Per questo è più che mai necessario per lavorare a processi di ricomposizione politica oltre che sociale.

Note al testo:

1) Baudelaire viene citato per la prima volta a pagina 23 dell’edizione il Saggiatore: La modernità…è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile”. La prima parte della definizione proposta si adatta benissimo al postmoderno, la seconda parte al modernismo

2) Sul superamento della teoria del valore nell’operaismo e, soprattutto, nel postoperaismo, il dibattito è acceso e controverso. Recentemente, uno dei nuovi e più importanti teorici dell’operaismo moderno, Gigi Roggero, imputa al postoperaismo il difetto di aver abbandonato tale teoria. Nel testo recentemente edito per Derive Approdi (Elogio della militanza, Derive Approdi, 2016) si cerca di recuperare nella teoria e nella pratica la teoria del valore nella società dove a predominare è comunque la figura del general intellect

3) Potrebbe risultare utile, in questo senso, la lettura di Città ribelli, Il Saggiatore 2013

4) Il ritorno a comunità primitive è spesso presente nell’elaborazione di alcuni gruppi anarchici ma anche nelle teorie comunitariste di marca rossobruna. Il ritorno ai miti della nazione, del suolo e la lotta al mondialismo sono invece tipiche della cultura di destra tout-court ma fanno capolino anche nelle pubblicazioni di aree rossubrune (vedi ad esempio il mito dell’Eurasia)

5) Un’ottimo testo per capire che lo sviluppo del capitale è ciclico e che le accelerazioni spazio-temporali non sono una novità può essere Il lungo XX secolo di Giovanni Arrighi, Il Saggiatore ultima edizione 2014