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Potere al Popolo e la questione europea

In vista delle elezioni per il rinnovo del parlamento dell’Unione Europea, Potere al Popolo ha deciso di stimolare il dibattito tra i propri aderenti e militanti, al fine di determinare la direzione che il giovane movimento si darà la prossima primavera.

Scrivo subito che, a mio parere, la scelta di Potere al Popolo è assolutamente meritoria non soltanto perché prosegue nel solco del “fare tutto al contrario” identificando il centro di gravità del proprio agire nella base che lo forma piuttosto che negli organi “dirigenziali”, ma soprattutto perché il possibile appuntamento elettorale offre una ghiotta occasione per esortare lo studio su una tematica – quella della UE – che discutiamo da 20 anni ma di cui, dobbiamo riconoscerlo, conosciamo molto meno di quanto sarebbe necessario per prendere qualsiasi decisione in merito.

Mi rendo conto di esprimere un giudizio molto netto con questa opinione, tuttavia, anche nei dibattiti interni tra compagni è palese la mancanza di conoscenze sulla UE sia nel merito degli interessi reali che l’hanno avuta a battesimo al di fuori della retorica, sia circa i meccanismi da cui è regolata che sono nati e al contempo hanno contribuito attivamente a generare tutta una serie di contraddizioni economiche, sociali e politiche che ne hanno scandito la progressione storica.

Il dibattito dunque, penso che debba essere approcciato quanto meno come un’occasione preziosa per elevare, sull’argomento, il livello discorsivo di militanti e aderenti, oltre a smussare certe spigolosità ideologiche che ancora ci attanagliano e che, lo affermo in maniera molto diretta, frenano notevolmente il potenziale che Potere al Popolo potrebbe esprimere come “intellettuale collettivo” se tutte le soggettività che lo animano si rendessero compiutamente conto che è ormai giunto il momento di abbandonare i dogmi della propria particolare formazione politica per elaborare concetti radicalmente nuovi in cui l’eredità del passato deve essere rappresentata dalla qualità del metodo di indagine intellettuale, non dalla fossilizzazione su risultati archiviati dal divenire storico.

A parere di chi scrive diventa quindi essenziale stabilire come base comune su cui intavolare le discussioni quanto segue:

1) identificare la costruzione dell’Unione Europea come la strategia delle fasce più alte della borghesia continentale per affrontare la crisi che ha attanagliato i profitti a partire dalla seconda metà degli anni ‘70 del secolo scorso (per capirsi meglio, come in USA e Gran Bretagna tale ruolo venne svolto dalle politiche neoliberali di Reagan e Thatcher, così nel Vecchio Continente l’operazione è stata affidata alla costituzione dell’UE).

2) Tenere bene a mente che le parole sono importanti dunque allenarsi a rompere l’equazione semantica in base alla quale UE ed Europa diventano sinonimi.

La UE, infatti, è un’organizzazione politica sovranazionale il cui obiettivo – volto a ristabilire “accettabili” margini di profitto alla grande borghesia continentale come accennato al punto (1) – è la costruzione di un sistema economico competitivo sia verso l’esterno (gli USA piuttosto che la Cina, il Giappone o i Brics) sia al proprio interno (con un processo di estesa e violenta riorganizzazione delle filiere produttive dei Paesi aderenti all’Unione).

3) Il focus esclusivo che le istituzioni europee pongono sulla competitività (dei sistemi produttivi, dei lavoratori, dei sistemi scolastico/formativi/di ricerca ecc.) indicate al punto (2) determinano inevitabilmente una struttura che produce disuguaglianze.

Nell’ambito economico la questione assume caratteri macroscopici, basti pensare a come l’unione economica e monetaria, attraverso l’Euro, abbia contribuito a modellare gli apparati industriali dei differenti paesi sulle esigenze di crescita della grande borghesia tedesca.

Quest’ultima è, infatti, passata da una condizione di depressione a fine anni ‘90 (la Germania era indicata come la grande malata d’Europa in quel periodo) ad un dominio continentale indiscusso, che genera saldi commerciali sempre macroscopicamente in attivo, addirittura superiori a quelli della Cina, che nella vulgata generale viene ancora percepita come “fabbrica del mondo”.

4) Le divergenze economiche determinate dalla UE in cui la borghesia tedesca (e quelle a essa collegate: austriaca, olandese ecc…) ha conosciuto una nuova età dell’oro hanno di contro prodotto condizioni di autentica rovina per tutti i sistemi economici che prima dell’entrata in vigore dell’Euro e del trattato di Maastricht erano concorrenti dell’industria germanica.

Il caso probabilmente più eclatante è quello italiano che, per struttura istituzionale (incentrata almeno teoricamente sui dettami della costituzione antifascista del 1948 in base alla quale la priorità della stato democratico è l’affermazione e l’esigibilità dei diritti sociali a cui quelli economici di mercato sono subordinati) e di conseguenza economica, aveva il proprio fulcro in un sistema produttivo “misto” in cui la parte del leone (sia per qualità di prodotto, sia per occupazione di manodopera) era svolto dall’Industria pubblica di Stato.

Un’industria che l’ideologia liberista fondante la nascita della UE, ha messo fuori norma per legge imponendo, anche attraverso la denuncia strumentale del debito pubblico, una serie di dismissioni e privatizzazioni che in 25 anni hanno posto il Paese completamente al di fuori dei giochi economici che contano, relegandolo al ruolo di villaggio vacanze per quel turismo cosmopolita che ha modellato le grandi metropoli internazionali sul disegno sempre uguale di città patinate per presenze mordi e fuggi.

5) L’impatto sull’Italia (e più in generale sul resto dei paesi mediterranei dell’UE, con la parziale eccezione della Francia) è stato reso ancor più catastrofico dalla totale, e negli anni sempre più manifesta, insipienza della borghesia nazionale e della classe politico-dirigente sua diretta espressione. Questi soggetti, infatti, hanno identificato come unica via alla perpetrazione del profitto la cannibalizazione del Paese nel senso letterale del termine.

Non è stato risparmiato nulla dagli imprenditori italiani: impianti produttivi, manodopera qualificata, ambiente, territorio, formazione culturale. Tutto è stato svenduto, umiliato, predato e distrutto in funzione del puntellamento dei bilanci trimestrali. I risultati sono quelli di una disgregazione che trova eguali (anche negli indicatori economici e di benessere sociale cui invito a fare riferimento e che  in rete sono facilmente reperibili) soltanto nelle condizioni immediatamente post belliche.

Su tutto questo, come già ho avuto modo di affermare, l’Unione Europea ha agito come fattore moltiplicativo e mai, ripeto mai, migliorativo o almeno limitativo.

6) La combinazione di sciagure appena accennata (struttura coercitiva e iper concorrenziale dell’UE, insipienza della borghesia nazionale) ha prodotto nel tessuto sociale una meridionalizzazione senza precedenti.

Anche qui le statistiche vengono facilmente in nostro aiuto mostrandoci una penisola in cui la marginalità economico-sociale, una volta “solo” localizzata nel meridione, oggi investe un’area molto più ampia del Paese, da cui si smarca soltanto il nord-est, la Lombardia, l’Emilia-Romagna e poche altre roccaforti che per vicinanza geografica o capacità di innovazione in una nicchia di produzione manifatturiera, sono riuscite a risultare funzionali alla filiera di subfornitura industriale tedesca.

Il resto del Paese, invece, si trova a fare coppia con la Grecia dei memorandum quanto a qualità della vita. Scritto ancora più brutalmente, abbiamo grosso modo 2/3 del paese che precipitano sempre più rapidamente nella condizione di vita dei paesi in via di sviluppo.

7) La società del rancore e della rabbia che ci raccontiamo e proviamo ad analizzare nelle nostre assemblee tra compagni è il frutto di questo colossale processo d’impoverimento e parcellizzazione (non dobbiamo sottostimare, infatti, che anche nei territori nazionali che ancora “tirano” quanto a indicatori economici, chi ha la fortuna di avere un lavoro e un reddito è sottoposto a livelli di sfruttamento che non si registravano dagli anni ‘50 del secolo scorso) di cui la UE è stata e continua ad essere fattore determinante.

Gli sfruttati, pur con tutti i propri limiti – una vita di merda che inibisce le facoltà di ragionamento, la mancanza di qualsivoglia corpo intermedio che sappia indicare univocamente il “nemico” fornendo gli strumenti culturali per smascherarlo, un sentore comune sempre più individualista e quindi maggiormente ricettivo nei confronti delle sirene reazionarie – questo stato di cose, che indice materialmente sulla propria esistenza, lo percepiscono in modo estremamente chiaro, ed elettoralmente, finiscono per punire tutti coloro che ne sono stati promotori e/o si pongono ancora come tali.

8) Dunque, fatto di quanto fin’ora esposto bagaglio condiviso di chi si riconosce in PaP, l’approccio alle elezioni per il rinnovamento del Parlamento europeo, a mio avviso, dopo un’attenta valutazione dello sforzo materiale che imporrebbe, dovrebbe essere affrontato esclusivamente nell’ottica di imbastire una battaglia politica per contendere gli sfruttati alle sirene delle destre, tenendo anche in considerazione che il fiato di queste ultime, nonostante il vento in poppa attuale, potrebbe essere più corto di quel che pensiamo.

Una dimostrazione seppur molto parziale proviene sia dalla Francia dove la LePen si esprime pubblicamente per il boicottaggio dello stato di rivolta diffusa innescato dai Gilet gialli, sia dall’Ungheria, dove una delle società che abbiamo dipinto come tra le più reazionarie dato il rappresentate politico che si è scelta – Victor Orban – proprio in questi giorni sta vivendo un risveglio delle coscienze a seguito della legge con cui il governo ha stabilito come obbligatorie 400 ore di lavoro straordinario all’anno che, per giunta, i padroni possono pagare al lavoratore dopo addirittura 3 anni da quando sono state svolte…

Per concludere credo dunque che ci sia un ampio campo che potrebbe essere conteso, ma prima è necessario ed inderogabile tornare compiutamente a studiare, evitando di esprimersi politicamente sulla base di sentori personali non suffragati da indagini precise.