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LE PRIVATIZZAZIONI E L’UNIONE EUROPEA

catastroika

A maggio del 2014 si terranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo. Parte del dibattito nella sinistra anche radicale sarà occupato dall’atteggiamento diverso che i vari spezzoni del movimento antagonista terranno nei confronti di questo appuntamento. Avendo poco interesse verso le contorsioni politiciste cerchiamo, con questo scritto, di fornire un contributo analitico sul rapporto tra la costruzione e lo sviluppo dell’Unione Europea e il tema centrale delle privatizzazioni che, la cronaca politica recente a Genova ce lo insegna, ha sempre di più una ricaduta diretta sulle condizioni dei lavoratori e dei cittadini. SCARICA IL DOCUMENTO privateuropa

Le privatizzazioni e l’Unione Europea

Indice:
1) Introduzione
2) Privatizzazioni in Inghilterra
3) Catastroika, la privatizzazione della Russia
4) Europa dell’est, la conquista dello spazio ex socialista
5) L’anshluss della DDR
6) L’Italia nel 1992
7) La lettera di Draghi e Trichet
8) Un bilancio delle privatizzazioni in Italia
9) La crisi del debito e la ristrutturazione capitalista: il caso Grecia
10) La nuova ondata di privatizzazioni
11) Conclusione

1) Introduzione

A maggio del 2014 si terranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo. Parte del dibattito nella sinistra anche radicale sarà occupato dall’atteggiamento diverso che i vari spezzoni del movimento antagonista terranno nei confronti di questo appuntamento. Avendo poco interesse verso le contorsioni politiciste cerchiamo, con questo scritto, di fornire un contributo analitico sul rapporto tra la costruzione e lo sviluppo dell’Unione Europea e il tema centrale delle privatizzazioni che, la cronaca politica recente a Genova ce lo insegna, ha sempre di più una ricaduta diretta sulle condizioni dei lavoratori e dei cittadini. Durante le mobilitazioni recenti in difesa del trasporto pubblico (e degli altri settori delle partecipate) a Genova, a Firenze e in altre città abbiamo notato come l’enfasi si sia rivolta soprattutto verso i sindaci e gli altri amministratori coinvolti (emblematici gli striscioni con lo slogan Renzi e Doria nemici dei lavoratori). Ovviamente non abbiamo nessuna intenzione di sviare le critiche per salvare amministratori complici del disastro sociale o incapaci di progettare una qualsivoglia alternativa. Nel caso specifico di Genova, il sindaco ha dimostrato tutta la sua incapacità ed insipienza politica con l’aggravante di aver impostato la sua recente campagna elettorale su parole d’ordine poi puntualmente smentite nell’azione concreta. Il sindaco di Genova è sicuramente un bugiardo (come gli rimproverano i lavoratori che in gran parte l’avevano sostenuto) ma le sue colpe stanno all’interno di un contesto di relazioni economiche e politiche molto più ampio. I tagli ai servizi derivano dall’azione dei governi nazionali i quali a loro volta recepiscono direttive che provengono dallo spazio dell’Unione Europea. E’ un meccanismo a cascata dove spetta agli amministratori locali la parte più gravosa di un gioco sporco gestito a livello politico da maggioranze con all’interno destra e sinistra in perfetta consonanza di vedute ed obiettivi. Le privatizzazioni dei servizi, le dismissioni del patrimonio industriale pubblico residuo, le cartolarizzazioni immobiliari e altre forme di privatizzazione (o liberalizzazione) sono una delle forme evidenti con le quali il blocco imperialista europeo (a guida tedesca) tende ad allargare la propria influenza economica, neutralizzare la crisi di sovrapproduzione e contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto. In altre parole, l’applicazione dell’austerity si compone anche del fenomeno di sottrazione dell’influenza pubblica sui servizi e sulla produzione.
L’intervento dell’Unione Europea è diretto (ad esempio nel caso della famosa lettera di Draghi e Trichet con la quale si faceva fuori Berlusconi e si spianava la strada al Governo Monti) ed in molti casi indiretto attraverso l’imposizione di parametri quali il pareggio di bilancio e la diminuzione del debito pubblico che costringono i diversi stati a dismettere l’intervento diretto in economia. Nelle aree di crisi, inoltre, è la gestione dei salvataggi economici ad accelerare i processi di sottrazione del patrimonio pubblico attraverso le regole imposte per l’erogazione dei finanziamenti (caso Grecia e Spagna).
Parte di questo lavoro sarà quindi una breve analisi storica dei processi di privatizzazione in Europa che non può che partire dall’analisi dell’azione del Governo Thatcher in Inghilterra. La lady di ferro, a metà degli anni 80, sviluppa una controffensiva incredibile contro i salari, i sindacati e le fasce subalterne sfruttando a pieno la politica delle privatizzazioni. L’attacco si scatena quindi in Europa partendo da un paese che manteneva una certa distanza dal meccanismo di integrazione europeo e che, attualmente, non fa parte dell’Unione Monetaria Europea. La Thatcher riprende alcune azioni che negli Stati Uniti sono caratteristiche del periodo reaganiano ma, se possibile, farà molto di più. Le privatizzazioni in Italia partono in grande stile nel 1992 e saranno un caso di scuola in Europa. Per estensione numerica ed economica le privatizzazioni in Italia saranno seconde, nello spazio europeo, soltanto rispetto all’Inghilterra. Una parte interessante e decisiva riguarderà l’analisi delle privatizzazioni nei paesi dell’Est, in particolare nell’ex DDR e nella Russia di Eltsin. Dopo l’ottantanove, l’apertura ai mercati dell’ex blocco sovietico crea un ulteriore cambio di passo: in quegli anni la colonizzazione del capitale europeo (e in parte mondiale) diviene inarrestabile. Le privatizzazioni nei paesi dell’Est diventano quindi un paradigma fondamentale per capire come il capitale sfrutta le proprie possibilità allargando la sua base produttiva aumentando lo sfruttamento sia nei paesi coinvolti, sia di riflesso, nei paesi occidentali.

2) Grazie signora Thatcher

Margaret Thatcher, recentemente passata a miglior vita, diventa primo ministro inglese nel 1979 dopo una carriera modesta di ministro nei precedenti governi conservatori i quali avevano sostanzialmente lasciato inalterato il sistema di welfare inglese che i governi laburisti avevano cominciato a costruire all’indomani della fine della seconda guerra mondiale (su questo vedi il recente docufilm di Ken Loach “The spirit of 45”). Nel 1979 il dato economico più inquietante della Gran Bretagna era l’inflazione alle stelle (20%). Il governo Thatcher comincia con una stretta alla politica monetaria per ridurre l’inflazione. Contemporaneamente parte una durissima stretta sui salari che fanno scendere ai minimi storici il consenso personale del primo ministro. L’occasione di riscatto avviene nel 1982 ed è fornita dalla guerra delle Falkland Malvine invase dal governo argentino. La risposta inglese è immediata e vincente. Nonostante le proteste, la spinta patriottica paga e il governo riesce vincitore dalle elezioni del 1983. Comincia qui la vera azione politica della Signora Thatcher che si libera da una opposizione interna di tipo gradualista nel partito dei conservatori e comincia con le sue politiche che comporteranno il più grande numero di privatizzazioni della storia recente, con la guerra ai sindacati e con la diminuzione di tasse soprattutto per i redditi più alti. Il punto più alto dello scontro si ha con i minatori inglesi nel 1984 ma le privatizzazioni inglesi procedono per circa 10 anni con numeri impressionanti: 46 grandi imprese nazionali privatizzate, 900 mila dipendenti che escono dal settore pubblico per entrare nel privato, circa trenta miliardi di dollari di incasso. L’ondata privatizzatrice fu condotta anche attraverso una stretta sulle Trade Unions con successive leggi che ne bloccarono la capacità di incidere. Nel 1979 in Inghilterra si tengono 1274 giorni di sciopero per ogni 1000 dipendenti. Nel 1992 le ore di sciopero sono scese a 108.
La prima parte del governo di Margaret Thatcher fu caratterizzata quindi dalla lotta all’inflazione il che crea immediatamente la caduta in recessione dell’economia con il crollo del PIL pro capite. I dati macroeconomici saliranno negli anni successivi raggiungendo negli anni 90 (al termine dell’era Thatcher) valori nuovamente in linea con i dati europei e USA. Nel corso del nuovo millennio il valore del PIL inglese supererà i valori degli altri paesi europei Germania compresa. Questi dati vengono spesso citati come un indice della bontà delle politiche di privatizzazione ma in realtà i dati sulla disoccupazione e sulle disuguaglianze sociali raccontano una storia differente. La disoccupazione inglese passa immediatamente agli inizi degli anni ottanta dal 5 all’11% e rimarrà tale fino alla fine degli anni ottanta. Questo dato verrà in parte colmato negli anni successivi e con i successivi governi.
Nel decennio Thatcher esplodono anche le disuguaglianze sociali e diventa drammatico il dato sulla povertà. Questi dati possono essere ricavati dall’andamento dell’indice sulle disuguaglianze di Gini che sale da un valore di 0,25 a metà degli anni 70 fino a 0,35 nel periodo thatcheriano (l’indice di Gini varia da 0 a 1. L’indice 1 indica il massimo della disuguaglianza). Ma, ancora di più, parlano chiaro i dati della povertà relativa calcolati come percentuale di cittadini che vive con meno del 60% del reddito dell’inglese mediano (colui che si trova a metà nella scala dei redditi). Questo indice mostra come il dato della povertà negli anni ottanta in Inghilterra sale dal 13% del 1975 al 22% del 1990.
Il liberismo thatcheriano quindi è una manovra di scuola per le politiche europee contro i lavoratori, i sindacati e il settore pubblico. Poco importa se dopo la fine del decennio ottanta l’economia inglese trascinata dalle nuove tecnologie e dall’informatica ricomincia a crescere; conta chi ha pagato questa crescita. I dati delle disuguaglianze, sulla disoccupazione e sull’aumento della povertà squarciano il velo sull’efficacia della lotta di classe che la borghesia inglese ha scatenato contro i lavoratori e i proletari. Le manifestazioni di giubilo che molti cittadini inglesi hanno messo in piazza in contemporanea all’omaggio dell’establishment durante i funerali della lady di ferro ci raccontano una storia che dobbiamo aver presente quando parliamo di liberalizzazioni.

3) La privatizzazione della Russia

Nel suo letto di morte, nel 1999, Boris Eltsin rivendicò la sua azione politica sostenendo di aver agito per donare alla Russia un futuro luminoso e “saltare d’un colpo da un passato di grigiore, stagnazione e totalitarismo a un futuro luminoso, ricco, civile”. Non andò esattamente così se non per un ristretto numero di oligarchi che furono gli unici vincitori di un enorme processo di privatizzazione che lasciò una enorme fetta di popolazione sul lastrico.
Negli anni del sacco della Russia, una quota altissima di popolazione ha visto crollare in pochi anni le proprie condizioni di vita attraverso lo smantellamento del welfare sovietico. Il tutto accompagnato da un crollo forte e continuo del tasso di natalità e una crescita di quello di mortalità (alcolismo, suicidi, criminalità). Il numero dei poveri alla fine degli anni 90 arriva a comprendere il 40% della popolazione. E la grave crisi finanziaria nel 1998 – con ampie speculazioni sui titoli di stato – ha portato la Russia al default, alla rovina di altri risparmi, all’arresto dell’espansione della nuova classe media per la chiusura a catena di banche e nuovi esercizi commerciali e finanziari. La grande ricchezza si concentra nelle mani di poche decine di persone e di multinazionali straniere.
Ecco come il Sole 24 ore descrive le privatizzazioni in Russia:

La privatizzazione della proprietà statale porta il nome di Anatolij Chubais (adesso Ceo del potente monopolio elettrico Ees). In teoria, cerca di creare un diffuso azionariato popolare, grazie alla distribuzione gratuita di voucher a tutti i cittadini della Federazione russa, che servirà loro acquistare titoli di società “azionarizzate”. Ma dei voucher si impadroniscono, rastrellandoli a basso prezzo, broker e società finanziarie. Al tempo stesso una importante quota di azioni è riservata a manager e maestranze delle aziende, gli insider. Ne fanno incetta i “direttori rossi” (come l’attuale re dell’acciaio Mordashov) e i loro collaboratori e compari. Le comprano persino dai loro stessi dipendenti, tenuti per mesi senza salario(…)

In un primo tempo, sono gli insider delle fasce alte delle aziende a essere i beneficiari della privatizzazione. Poi nel 1995-96 sarà la volta dei “nuovi ricchi”, fondatori, manager, grandi azionisti e Ceo di nuovi gruppi finanziari (come le “sette banche”): essi si impadroniscono delle aziende dei settori più redditizi della proprietà statale (energia, siderurgia, materie prime). Si applica lo schema “prestiti per azioni” creato da Chubais e dall’oligarca Potanin, ora tra i fedelissimi di Putin. Cioè: prestando denaro liquido allo Stato in perenne deficit si ricevono in pegno azioni a prezzi di favore. Le azioni restano nelle mani dei “banchieri” creditori. E le successive aste di privatizzazione sono truccate per favorire i nuovi “oligarchi”.

E’ “l’affare” o “il furto del secolo”. Un esempio: la società Menatep (di Khodorkovskij) compra un‘azienda petrolifera, la Yukos, che vale oltre 2 miliardi di dollari, pagando solo 350 milioni. In questo schema rientra anche l’appoggio finanziario e mediatico che Eltsin riceve da queste nuove figure sociali – gli oligarchi – nelle elezioni presidenziali del 1996, che vince battendo il candidato comunista…(1)

Per realizzare il suo piano ed adottare le dottrine dei Chicago Boys già applicate in Cile sotto Pinochet e da Margaret Thatcher, Eltsin non esita a liberarsi di Michail Gorbaciov che pure ne aveva creato l’ascesa politica a guida della Federazione Russa. L’ultimo leader sovietico è pubblicamente umiliato dall’ex delfino dopo il tentato putsch del 1991 e definitivamente allontanato dalla guida dello spazio ex sovietico in trasformazione. Eltsin, nell’ottobre del 1993 non esita a far bombardare il Parlamento reo di non appoggiare la liberalizzazione economica e frenare le riforme. Eltsin adotta in patria un metodo per vincere le resistenze interne alle privatizzazioni e alla svendita del patrimonio pubblico che “salva” la Russia dalle guerre che dilanieranno la ex Jugoslavia: dove il sistema politico non risponde alle aspettative dell’imperialismo occidentale è l’intervento esterno a rimettere in ordine il processo mentre in Russia è bastata l’azione di Eltsin e dei suoi ministri.

4) Lo spazio dell’Europa dell’Est

Dopo la fine del sistema sovietico si apre il mercato dell’Est Europeo. In questi paesi gli anni 90 sono quelli della svendita del patrimonio pubblico e statale che avviene con il cambio di regime. La transizione dalla proprietà statale al mercato segue strade diverse attraverso meccanismi che sostanzialmente si dividono in:

– Privatizzazioni attraverso l’emissione di quote acquistabili da privati, da cittadini e da lavoratori (vouchers)
– Vendita dell’azienda a partner strategici stranieri
– Privatizzazione con cessione agli ex manager dell’industria di stato

La cessione del patrimonio è pressoché assoluta e gli acquisti avvengono soprattutto da parte di partner europei (in particolare provenienti dalla RFT). In quegli anni aumentano tantissimo le disuguaglianze sociali nei paesi dell’ex blocco sovietico, in generale si assiste ad un fenomeno di impoverimento nei lavoratori e di arricchimento di alcune frazioni della rinascente borghesia industriale. Scende per tutti gli anni 90 la quota dei salari sul reddito nazionale. La situazione è particolarmente grave in Russia e negli altri paesi dell’ex Unione Sovietica. L’economia ha una leggera ripresa nel PIL alla fine degli anni 90 fino al sopraggiungere della crisi del 2001. Anche nella fase di ripresa dei valori macroeconomici si assiste comunque all’allargamento delle disuguaglianze sociali interne tra una parte di popolazione maggioritaria che continua a diminuire le quote salariali ed una elite di nuovi ricchi che aumenta profitti e capitali.
La colonizzazione dello spazio est europeo è comunque fondamentale nella costruzione dello spazio economico europeo in quanto permette l’allargamento produttivo delle imprese capitaliste dell’ovest (soprattutto quelle tedesche che potevano investire) e la nascita di una zona di sfruttamento ad est (dove il costo del lavoro molto inferiore rispetto all’ovest compensa ampiamente una minor produttività del lavoro) che servirà da arma di ricatto per impostare moderazione salariali, ristrutturazioni e riforme del lavoro nell’ovest attraverso il ricatto della delocalizzazione produttiva.

5) L’anshluss della ex DDR

La Treuhandanstalt (abbreviato Treuhand), nell’intenzione dei suoi originari ideatori e nella sua prima formulazione del 1° marzo novanta doveva riorganizzare e tutelare la proprietà pubblica, preparandosi ad operare in un contesto mutato di rapporti sociali capitalistici, in una strategia graduale di adeguamento all’economia di mercato.
Ciò non avvenne.
Su pressione dei banchieri venne eliminato ogni vincolo alla privatizzabilità del patrimonio industriale della Rdt – mentre una legge dell’ultimo governo della Rdt guidato da Modrow aveva previsto un limite massimo del 49% – e si evitò che le società da privatizzare assumessero la forma di società per azioni, per le quali la legge della Germania Ovest prevedeva la Mitbestimmung, ossia alcuni poteri di controllo sulla gestione delle imprese per le rappresentanze dei lavoratori.
Così la nuova legge sulla Treuhand, venne votata il 17 giugno dalla Volkskammer, due settimane prima dell’avvio della moneta unica, in modo da poter entrare in vigore anch’essa il 1° Luglio.
Per fare passare la legge venne addirittura cambiata in extremis la costituzione della Rdt, per consentire la vendita senza limitazioni della proprietà pubblica del suolo e dei mezzi di produzione.
La “legge sulla privatizzazione e riorganizzazione del patrimonio di proprietà del popolo”, iniziava così: I beni di proprietà del popolo devono essere privatizzati.
E ciò avvenne senza il rispetto di quei minimi criteri di controllo, trasparenza, efficienza di cui si riempiono la bocca i cultori del libero mercato.
Ai tedeschi dell’ovest andò l’87% delle imprese privatizzate, agli acquirenti stranieri il 7%, e appena il 6% agli ex cittadini della Rdt.
Lasciamo direttamente la parola all’economista Vladimiro Giacchè che sintetizza questo processo: le imprese che furono vendute subito (sottocosto) e furono acquistate da capitalisti della Germania Ovest (in qualche caso ancora prima che comparisse la Treuhand) appartenevano a una categoria ben precisa: si trattava di monopolisti locali in settori sottratti alla concorrenza internazionale, quali le assicurazioni, le banche, le catene alberghiere, le imprese del settore energetico (ad es. le centrali elettriche), le catene dei negozi e supermercati, e le raffinerie di zucchero.
Tutte le altre privatizzazioni furono effettuate principalmente per quattro ragioni: intascare i contributi pubblici per il risanamento dell’impresa collegati alla privatizzazione, effettuare speculazioni immobiliari (cioè chiudere la fabbrica e vendere il terreno su cui era stata costruita o altri annessi immobiliari), eliminare dei concorrenti (comprare l’impresa per chiuderla), trasformare l’impresa acquisita in filiale operativa della casa madre dell’ovest. Ma questo gigantesco esproprio del capitale monopolistico tedesco ai danni della popolazione della ex Rdt attraverso i soldi del contribuente tedesco occidentale ha causato la distruzione della base industriale della Germania Est e l’eliminazione di ben più di 4 milioni di posti di lavoro, creando un immenso esercito industriale di riserva, qualificato e “migrante” che tallonasse le garanzie raggiunte dalla forza-lavoro nell’ovest, e “disciplinando” una porzione consistente di proletari che per la loro sopravvivenza sono costretti a ricorrere o alle mansioni più dequalificate e malpagate, o a sottoporsi ai criteri sempre più rigidi di erogazione di reddito attraverso lo stato sociale. (2)

6) L’Italia nel 1992

Il presidente del consiglio era allora Giuliano Amato. Il governo aveva il problema del debito pubblico che in quegli anni era al 120% rispetto al PIL. L’Italia era dovuta uscire dal Sistema Monetario Europeo e le aziende statali soffrivano di una crisi di deficit. L’uomo chiave per gestire le privatizzazioni è Mario Draghi allora direttore del Ministero del Tesoro (attualmente Draghi è presidente della BCE). Il libro verde sulle privatizzazioni esce nel 1992 in conseguenza della crisi dell’EFIM (Ente finanziamento delle industrie manifatturiere) che viene liquidato dallo Stato. Da quel momento il processo di privatizzazione assume contorni enormi. Ricordiamo che a quel tempo, lo Stato Italiano gestiva il 16% della forza di lavoro totale, controllava l’80% del sistema bancario e aveva proprietà diffuse in tutti i settori. Nel giugno del 1992 fu organizzata una minicrociera sul panfilo Britannia dove Draghi presentò al gotha della finanza mondiale il piano di privatizzazioni italiano.

Nel 1993 fu costituito presso l’allora Ministero del Tesoro il “Comitato per le privatizzazioni” un ente operativo per gestire le svendite. Il primo settore ad essere svenduto fu quello bancario con le privatizzazioni delle banche di proprietà dell’IRI. Furono vendute anche IMI e INA. Il settore bancario pubblico fu definitivamente smantellato nel biennio 1998-99 con le cessioni di Banca Nazionale del Lavoro e Mediocredito Centrale. Con l’emanazione del Testo Unico in materia bancaria e creditizia del 1993 fu attivato anche il meccanismo che porterà alla fine della distinzione tra banca commerciale e banca d’affari. L’azione sulle banche fornirà gli strumenti per le cessioni nei settori manifatturieri e nei servizi. Il meccanismo delle privatizzazioni si inceppa con il primo governo Berlusconi ma riprende fiato con il ritorno al governo della “sinistra” con Prodi e Massimo D’Alema dal 1996 in poi. Sono in questi anni nuove cessioni delle quote IRI, la cessione delle Autostrade e della Telecom. Il successivo governo Berlusconi lanciò un piano di dismissioni da 60 milioni di euro che però non venne realizzato se non in minima parte. Il ministro Tremonti si concentrò soprattutto sul patrimonio immobiliare pubblico e sulla cessione del sistema dell’acqua pubblica attraverso la creazione delle multiutilities.
Dal 1992 al 2002 lo Stato incassa dalle privatizzazioni circa 120 milioni di euro ma in compenso ha smantellato l’industria di stato, ha ceduto sovranità su infrastrutture fondamentali (trasporti, energia). Rimangono ancora allo stato diverse aziende in gran parte controllate dagli enti locali che entreranno nel mirino della famosa lettera di Draghi e Trichet che darà il benservito al Governo Berlusconi e porterà al governo Monti. Al centro della missiva la necessità di una ulteriore diminuzione del debito pubblico con le cessione delle aziende municipalizzate.

7) La lettera di Draghi e Trichet

Nella lettera si legge:

“Nell’attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure: 1.Vediamo l’esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. Alcune decisioni recenti prese dal Governo si muovono in questa direzione; altre misure sono in discussione con le parti sociali. Tuttavia, occorre fare di più ed é cruciale muovere in questa direzione con decisione. Le sfide principali sono l’aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano più adatti a sostenere la competitività delle imprese e l’efficienza del mercato del lavoro.
a) E’ necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala. “ (3)

La lettera arriva però in un momento cruciale in cui il referendum del 2011 aveva dimostrato la contrarietà degli italiani al processo di privatizzazione. Come conseguenza della lettera il governo Berlusconi mette in atto una manovra legislativa per aggirare il referendum. Queste norme vengono riprese in senso ancora più costrittivo dai decreti del nuovo Governo Monti. Se la volontà dei governi è chiara è da segnalare la resistenza di alcuni enti locali i quali hanno impugnato le nuove norme chiedendo un parere della Corte Costituzionale che nel 2012 sembra ribadire la necessità di rispettare la volontà popolare. In realtà nei trattati Europei vi è una clausola secondo cui non è possibile interagire con i diritti di proprietà nei paesi membri. Questo sembrerebbe voler dire che non è possibile imporre privatizzazioni coatte nei paesi membri. In realtà questo è messo in discussione dalla parte dei trattati che vieta nei paesi membri dell’eurozona ogni restrizione ai movimenti di capitale. Al di là delle interpretazioni rimane una scelta politica dei governi e delle amministrazioni. L’azione di Monti, al di là dei risultati, indica in quale direzione i governi intendano procedere. D’altra parte il processo di privatizzazione, anche se non imposto è in coerenza con gli obiettivi di diminuzione del debito pubblico del 20% all’anno previsto negli ultimi accordi europei. La volontà politica è chiara: al di là della validità giuridica assegnabile alla lettera segreta di Draghi e Trichet il confine è tracciato dal rispetto dei parametri di stabilità.

8) Un bilancio delle privatizzazioni in Italia

Un bilancio dal processo di privatizzazioni italiano si può trarre da alcune cifre: il contributo al PIL delle imprese pubbliche o partecipate dallo stato scende dal 18% del 1991 al 4,7% del 2012, le privatizzazioni hanno coinvolto 225.000 lavoratori, dei quali 125.000 nel settore delle telecomunicazioni, 25.000 in quello siderurgico, 24.000 in quello meccanico, 22.000 nell’alimentare e della distribuzione, 14.000 nei trasporti e infrastrutture. La deregolamentazione del sistema bancario ha portato all’azzeramento del controllo pubblico sulla finanza. L’Italia controllava il 75% dell’intero sistema bancario agli inizi degli anni 90, dopo la privatizzazione e la riforma del sistema bancario il processo di concentrazione è andato progredendo lasciando nelle mani di 5 gruppi bancari il 50% del capitale totale. La Cassa Depositi e Prestiti che dovrebbe funzionare come ente regolatore pubblico è controllata dalle fondazioni delle principali banche private. La parte delle privatizzazioni nel sistema bancario è il vero nocciolo duro della privatizzazione. L’obiettivo dichiarato dai governi era la liberalizzazione con aumento della concorrenza ma nulla di tutto questo è stato ottenuto. Al contrario l’obiettivo non dichiarato era quello di rafforzare il mercato borsistico e finanziario, obiettivo raggiunto in quanto dal 1992 al 2007, la capitalizzazione del mercato borsistico domestico è cresciuta di sette volte e il volume degli scambi è aumentato di ottantacinque volte.
Processo, quest’ultimo, tutt’altro che frutto della libera scelta del “consumatore/risparmiatore”, bensì preciso risultato di una strategia perseguita riducendo drasticamente ogni attrattiva dei Buoni Ordinari del Tesoro e dando un definitivo colpo d’ala al mercato borsistico attraverso l’imposizione – governo Amato – di una tassa del 27% sugli interessi dei conti correnti, a fronte del 12,5% applicato ai guadagni da investimenti in Borsa. Questo processo è stato accompagnato e sostenuto dagli investitori esteri, che hanno sottoscritto sia titoli di Stato che titoli azionari delle nuove società privatizzate, divenendo in breve tempo attori chiave del sistema finanziario, fino a diventare, nell’attualità in corso, causa principale della sua odierna crisi verticale (4).

9) Dalla crisi dei debiti alle privatizzazioni. Il caso greco

La crisi economica della fine degli anni 2000 ha portato ad una riorganizzazione dei trattati dell’Unione Europea in senso ancora più restrittivo fino all’introduzione del Fiscal Compact che entrerà formalmente in vigore nel 2015. Nel contempo la BCE ha effettuato una serie di operazioni di salvataggio condizionato nei paesi in cui la crisi dei debiti ha colpito più duramente (i PIIGS). La situazione greca è sembrata fin dall’inizio la più difficile. All’interno del paese ellenico giocano una serie di fattori storici dovuti al suo sviluppo nel periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale ai giorni nostri. Sono gli anni della destra al potere e della dittatura dei colonnelli fino al 1973. In quegli anni la crescita greca è imposta attraverso un meccanismo di assoluta tolleranza dell’evasione fiscale e di cooptazione all’interno del sistema di consenso della classe media attraverso l’allargamento del settore pubblico con incremento del debito e dell’inflazione. Alla fine della dittatura, negli anni ’80, avviene un processo di ulteriore nazionalizzazione di imprese (i campioni nazionali). In tutto il periodo che va dal dopoguerra fino all’adesione all’eurozona negli anni 90, la situazione dell’economia in Grecia si deteriora con una elevata inflazione, un elevato debito pubblico e un deficit nella bilancia commerciale verso i partner europei ed in particolare la Germania. In quegli anni la Grecia fa parte dei paesi che subiscono una deficienza strutturale nel mercato del lavoro nei confronti della Germania che si aggrava con l’entrata nell’eurozona e diventa drammatica con l’introduzione dell’euro. La crisi dei debiti arriva quindi in un momento preciso in cui la Grecia è l’anello debole (tra i paesi del sud Europa è il più debole) in preda al livello più alto di speculazione finanziaria. In questa situazione in cui la speculazione è alle stelle (lo spread fra i titoli di stato greci ed i titoli tedeschi subisce uno spaventoso incremento fino al valore di 1000 punti base) arrivano i salvataggi successivi della Grecia ad opera della troika (BCE, FMI, Commissione Europea) con tre successive tranche di aiuti economici condizionati all’adozione di una serie di riforme economiche tendenti a ridurre il deficit annuo sul PIL ed in generale il debito pubblico. Sono i cosiddetti memorandum che i governi di centrodestra e del Pasok assumono come riferimento per la loro politica. Inizialmente si basano su tagli di spesa ed aumento del carico fiscale. L’obiettivo è la riduzione del deficit annuo sul PIL dal 15,4% del 2009 al 2,6% del 2014. La speculazione però non si arresta ed arrivano nuovi memorandum che impongono la riduzione del deficit attraverso la privatizzazione di settori pubblici, dell’istruzione, della sanità. Qui è la leva del debito e dell’impossibilità di agire la leva monetaria, che la Germania impone a tutta l’eurozona, ad agire come principale motore del processo di dismissione del settore pubblico. In questo senso la formulazione dei trattati lascia formalmente scappatoie al diritto proprietario dei vari paesi ma la volontà si esplica attraverso i memorandum in cui concretamente si esplicitano le condizioni per avere gli aiuti. La troika non esita a creare task force per le privatizzazioni e la dismissione del patrimonio pubblico sostanzialmente ripetendo le operazioni messa in atto in analoghe commissioni in Italia (la commissione Draghi) e soprattutto in Germania (la Treuhand).
Il risultato della cura è evidente: la disoccupazione sale dal 10% del 2009 al 23% del 2012, crollo del salario medio mensile dai 2163 euro del 2009 ai 1490 del 2012 con riduzione dei salari dal 30% per i dipendenti pubblici al 20% per i dipendenti privati, perdita del potere di acquisto per tutti i cittadini etc… Si potrebbe continuare con i dati economici del disastro greco ma in realtà questi dati andrebbero valutati nel lungo periodo a fronte di una crisi che sembra continuare.

10) Le privatizzazioni continuano

Nel 2013 le privatizzazioni in Europa sono ancora la principale azione economica per ridurre il debito pubblico. Si stima che nel 2013 siano entrati circa 30 miliardi di euro come introito totale dalle dismissioni. Parte del leone la fa la dismissione della Royal Mail in Inghilterra (la più grande privatizzazione dall’era di Margaret Thatcher) ma il processo coinvolge ancora la Grecia, l’Italia (recentemente il governo Letta ha iniziato la procedura di dismissione delle Poste Italiane) e la Spagna dove il processo riguarda la dismissione della Sanità Pubblica e degli ospedali. Il governo Rajoy alle prese con il decimo più grande debito del mondo ha tagliato gli stipendi, allungato l’età pensionabile, impostato una linea dura sugli sfratti attraverso la creazione di una bad banck per gestire le dismissioni del patrimonio immobiliare. La privatizzazione avviene a prezzi di saldo: ad esempio la pista di atterraggio dell’aereoporto di Ciudad Real in Castilla viene venduta ad un prezzo pari ad un decimo degli euro spesi per la sua costruzione.

11) Conclusione

Il fenomeno delle privatizzazioni è quindi un fenomeno complesso che arriva in Europa negli anni ’80 partendo dall’Inghilterra di Margaret Thatcher che sposa completamente le teorie economiche dei “Chicago Boys” già ampiamente sperimentate negli anni precedenti (ad esempio con il Cile di Pinochet). Il fenomeno è inizialmente limitato all’Inghilterra ma subisce una serie di accelerazioni dovuti a diversi fenomeni, alcuni concomitanti:
1) la fine del socialismo reale con il crollo dell’Unione Sovietica
2) La liberalizzazione dei mercati finanziari e l’avvio della nuova fase della globalizzazione
3) Il processo di integrazione europeo e i parametri di convergenza fissati dai trattati
4) La crisi dei debiti sovrani nel 2001 fino alla crisi dei giorni nostri.
Con il crollo dell’ottantanove si aprono una serie di scenari in cui il vincente capitalismo si inserisce sfruttando una posizione di forza dovuta alla fine della guerra fredda. In quegli anni si sviluppa il pensiero unico e la socialdemocrazia europea perde la sua funzione storica. Il movimento operaio occidentale non ha più la possibilità di sfruttare lo spauracchio comunista e non riesce più ad arginare lo sviluppo neoliberista che, per la prima volta dal dopoguerra, non ha più interesse a tener dentro il patto sociale tra capitale e lavoro enormi quantità di salariati. Inoltre, lo sviluppo del capitalismo ad est allarga enormemente lo spazio per le imprese multinazionali introducendo una ulteriore spina nel fianco dei lavoratori e delle organizzazioni che lo rappresentavano attraverso il ricatto della delocalizzazione produttiva.
Lo sviluppo della finanziarizzazione dell’economia inoltre allarga lo spazio per la finanza ed allontana definitivamente le banche dallo stato. Il debito pubblico diventa quindi un parametro centrale per giustificare le speculazioni finanziarie che colpiscono i vari paesi. La diminuzione del rapporto debito/PIL diventa quindi una sorta di religione dogmatica per tutti i paesi, soprattutto per quelli che non possono più effettuare meccanismi di svalutazione competitiva. Questo fenomeno entra nella sua fase matura in Europa con il Trattato di Maastricht e con la successiva Unione Monetaria Europea. Privatizzare le aziende, svendere il patrimonio industriale, esternalizzare i servizi alle persone diventano quindi passaggi quasi obbligati in tutta Europa. In Italia il processo si avvia negli anni ’90 e risparmia solo alcune parti del sistema (scuola, in parte la sanità, alcune aziende locali). Anche dove il processo di privatizzazione non arriva allo smantellamento, si avviano processi che vanno in quella direzione attraverso cambi di struttura sociale (ad esempio da municipalizzate a SpA), esternalizzazione e cooperativizzazione di servizi.
La crisi del debito degli anni 2000 colpisce i paesi più esposti che vengono costretti a privatizzare dall’azione dei capitali vincenti rappresentati ai giorni nostri dalla Troika (Commissione Europea, FMI, BCE). I paesi limitrofi all’Unione Europea che non avevano seguito fino in fondo i dettati privatistici dettati dalle multinazionali (ex Jugoslavia, Ucraina ad esempio) sono stati al centro di guerre più o meno alimentate da quegli stati o imperi (reali come gli USA o in fieri come l’UE) con al centro l’idea di ulteriori colonizzazioni economiche.
La spinta ovviamente è economica: in questo breve testo abbiamo cercato il più possibile di mettere in evidenza come le privatizzazioni sono un corollario fondamentale per l’internazionalizzazione produttiva che il capitale mette in atto per aumentare i propri profitti a scapito dei salariati. In tutti i paesi le privatizzazioni aumentano le disuguaglianze sociali a beneficio della borghesia industriale impoverendo i salariati e le classi subalterne in generale. Nel contempo non si assiste a nessun beneficio dal punto di vista dei servizi se non per le classi il cui reddito consente di spendere soldi per prestazioni privatistiche di alto livello.
Le iniziative di contrasto (ad esempio il referendum 2011 in Italia sui servizi pubblici) sembrano mettere in apparente difficoltà il fenomeno ma, la politica risponde compattamente imponendo nuove sottrazioni di patrimonio ed eludendo la volontà popolare espressa. In questo ambito, l’unica resistenza reale e potenzialmente vincente è la lotta dei lavoratori (ad esempio la lotta per il trasporto pubblico di Genova, Firenze etc…). Queste lotte sono l’esempio di come una lotta specifica di settore può allargarsi all’intera popolazione mettendo in seria difficoltà non solo i privatizzatori e gli sfruttatori locali ma l’intera impalcatura neo capitalista che è il motore dell’intero processo di sfruttamento dei salariati.

Collettivo City Strike Genova-Noi Saremo Tutto

Note bibliografiche
(1) Sole 24 ore versione on line. L’ambigua eredità di Boris Eltsin
(2) Collettivo City Strike, Recensione ad Anshluss di Vladimiro Giacchè Ed. Imprimatur 2013
(3) La lettera di Draghi e Trichet. Corriere della Sera on line
(4) Fonte: Bersani Marco, Catastroika, Editore Alegre 2013