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Chi fa la guerra non va lasciato in pace!

NEWS_210428Non c‘é stato un momento preciso in cui è cominciata questa guerra. Abbiamo combattuto in Corea, in Jugoslavia, in Iran. Il conflitto si è allargato sempre di più. Alla fine hanno cominciato a sganciare bombe anche qui. E’ successo come il diffondersi di un’epidemia. La guerra si è estesa. Non è cominciata”.

Colazione al Crepuscolo, di Philip K. Dick, 1953

Iniziamo con una banalità di base: la guerra alle porte di casa è entrata nei perimetri dello spazio politico dell’UE, ha determinato uno stato di eccezione permanente evidente ai più e un salto di qualità nelle scelte apparentemente irreversibili dei “signori della guerra”made in Europe.

Nella percezione comune, gli indiretti ambasciatori di questa “escalation” sono stati per primi i profughi sradicati dai conflitti causati dalla politica bellicista della NATO, dell’Unione Europea, dalle petrol-monarchie della penisola arabica in Africa e in “Medio-Oriente”.

Dietro la falsa contrapposizione tra integrazione ed esclusione dei profughi giocata dalle elité dei governi europei a seconda dei propri interessi (ricerca di manodopera a basso costo versus ricerca di un consenso basato sul concetto di sicurezza), c’è una sostanziale profonda matrice neo-coloniale nella politica di ogni schieramento che in fondo non fa che cristallizzare l’abisso tra “razze schiave” e “razze padrone” nel nuovo dis-ordine mondiale. In tal modo viene perpetrata tuttora quella politica di accumulazione per espropriazione di terre, uomini e risorse che è alla base del nostro sistema economico.

Se, negli anni recenti, questo sistema aveva offerto le briciole ad un parte della classe lavoratrice “autoctona” dei paesi imperialisti, anche a scapito della forza-lavoro multinazionale, ora ha ben poco da offrire a tutti e mette in pericolo la sicurezza dei “più”.

Il corollario di questa politica “neo-colonialista” è stata una percezione inferiorizzante dei “dannati della terra” che ha fatto breccia da tempo tra i “proletari autoctoni” annichilendo una tradizione internazionalista che aveva visto – per una parte importante del movimento operaio – nella lotta dei popoli del tricontinente un naturale alleato per il miglioramento delle proprie condizioni di vita anche nei propri territori.

Ma i nostrani e autoctoni dannati della metropoli stanno bruscamente scoprendo gli “effetti collaterali” di un ciclo di feroce competizione globale (in primis all’interno della contraddizione capitale-lavoro) e di relativi conflitti, fino ad ora – tranne casi significativi ma marginali – rimasti al di fuori della sfera della propria quotidianità e tutt’al più nella rappresentazione falsante della propaganda di guerra dei media mainstream. Tutto questo accade in un contesto in cui il consenso dei tecno-burocrati di Bruxelles e Francoforte, e delle loro articolazioni locali, è ai minimi storici.

La pericolosità di questo boomerang sta facendo riflettere su un possibile cambiamento di tattica da parte di una parte della borghesia e del blocco di potere dominante, che non vuole fare più le spese di una gestione scellerata dello strumento guerra (e vedere risicati ancora maggiormente i propri consensi) e sta dando credito a quelle voci inascoltate che da anni fanno dell’opposizione alla guerra un discrimine etico e politico.

Ma scelte meno scellerate sarebbero possibili solo con una radicale inversione di tendenza ad opera di soggetti politici in grado di dare rappresentanza ad un mutamento drastico dei rapporti tra il “centro” e “la periferia” nell’attuale gerarchia imperialista, restituendo alla sovranità popolare le scelte di fondo della politica in un cambio di paradigma nella tessitura di rapporti fraterni tra popoli e le loro legittime rappresentanze.

Questo anche perché, a parte qualche voce fuori dal coro, la borghesia maggioritaria ha scelto da tempo di andare alla guerra a qualsiasi costo. Tutto per la ragione criminale del pensiero economico secondo cui la guerra è lo sbocco naturale della crisi: chi ha rimosso questo dato storico, come la sinistra radicale in primis, non è solo intellettualmente disonesto ma politicamente opportunista e ci condanna ad una gravosa sconfitta.

Il prossimo gennaio entreremo nel 25° anno di stato di guerra permanente inaugurato dalla prima aggressione statunitense all’Iraq, allora stato sovrano multi-etnico e multi-confessionale la cui conformazione politica era la conseguenza di una rivoluzione anti-coloniale, ed è sempre bene ricordarlo, in prima fila nella coalizione dei paesi arabi del “fronte del rifiuto” nei confronti di una normalizzazione dei rapporti con lo stato d’Israele, nonché campione nell’accoglienza e nell’integrazione dei profughi palestinesi.

Da quel gennaio del ‘91 la tendenza alla guerra ha sempre e solo subito brusche accelerazioni e i teatri dei conflitti si sono estesi, moltiplicandone i fronti, fino alla situazione attuale in cui una linea dal Marocco fino alla Cina.

Qui, non solo si affrontano gli attori globali e i loro referenti locali nello scontro inter-imperialista, ma combattono anche resistenze popolari dai contenuti progressisti contro le aggressioni neo-coloniali e feroci dittature militari.

A differenza del passato, non vi è attualmente un involucro politico in una cornice sovra-nazionale in grado di fungere da camera di compensazione dei conflitti inter-imperialistici sempre più aspri in un quadro di bilanciamento delle forze in chiave distensiva. Esistono invece vettori che accelerano la tendenza alla guerra come NATO e Unione Europea che sono né più né meno gli attuali Dottor Stranamore che giocano con la vita di miliardi di persone.

Appare chiaro come in questo scenario, l’attuale leadership politica turca si sia fatta carico del primato nella spinta al conflitto sia nei confronti del nemico “interno” che nei confronti di quello “esterno” delineando un profilo di intervento politico che fa diventare la Turchia un laboratorio politico per l’inasprimento della guerra. Ricevendo, per così dire, il testimone dall’alleanza tra neo-nazisti e neo-liberisti che ha provocato il golpe in Ucraina ormai due anni fa e che attualmente governa il Paese.

Più accetteremo la catastrofe legittimando il corso politico attuale nei punti più avanzati della contro-rivoluzione globale: Israele, Ucraina, Turchia, più ci condanneremo a subire lo stesso trattamento che i nostri fratelli e le nostre sorelle subiscono in quei quadranti, perché lo stato d’eccezione permanente è per sua natura virale.

L’urgenza di un movimento contro la guerra e di rottura dello stato d’eccezione permanente è improcrastinabile, sta a noi dare forza organizzata a una spinta che sotto-traccia possiamo registrare abitualmente nella sensibilità dei ceti popolari. Stiamo veramente camminando sull’orlo di un baratro ad occhi bendati, e di fronte all’attuale empasse la guerra alla guerra non può che essere la risposta contro il nemico più vicino, che è quello in casa nostra. Per quel che possiamo, ci mettiamo a disposizione per favorire la formazione di un processo locale che vada in questa direzione.