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Conte bis vs Arcelor Mittal: una lotta tra totani

Il 20 dicembre si è verificato l’ennesimo colpo di scena nella querelle che dal 5 novembre “contrappone” il Governo Conte bis ad Arcelor Mittal, multinazionale siderurgica che il primo novembre del 2018 acquisiva formalmente la proprietà degli stabilimenti produttiva di Ilva Spa, in amministrazione commissariale dal 2015.

La cronaca degli anni recenti di Ilva e dello stabilimento tarantino in particolare, dovrebbe essere arcinota a tutti e non staremo a ripercorrerla.

Ciò che in questa sede intendiamo sviscerare, è come la spettacolarità da fiction con cui il caso è trattato dalle due parti, stia conducendo a un epilogo ampiamente prevedibile e scontato: la classica montagna che partorisce il topolino.

– I fatti –

Che lo stabilimento di Taranto versi in condizioni materiale disastrate, non è un segreto per nessuno. Lo sanno i tarantini, che in 50 anni, hanno visto l’acciaieria prima inserirsi in modo a dir poco invasivo nel corpo cittadino, poi sfornare acciaio e lavoro e, più velocemente di quanto prevedibile, anche devastazione ambientale e sanitaria; infine trasformarsi in un ammasso di ruggine da quando, nel 1995, l’impianto diventa di proprietà della famiglia Riva che lo spreme peggio di un limone: allo Stato lo ha pagato una castagna secca, non ci investe un centesimo ma lo fa lavorare a tutto spiano.

Governo, imprese e sindacati. Tutti fanno finta di avere soluzioni sull’ILVA. Ma le realtà vengono accuratamente taciute

Risultato: utili a palate, prontamente dirottati in conti offshore che nessuna forza politica dell’arco parlamentare si è mai peritata di stanare. La marcescenza dello stabilimento è perfettamente conosciuta anche dai lavoratori che nell’impianto hanno perso la vita troppo spesso. Non fanno eccezione nemmeno i sindacati, tra cui soltanto USB ha avuto un ruolo propulsivo delle rivendicazioni operaie/cittadine e propositivo nella costruzione di un’alternativa allo stato di cose presenti.

In una narrazione nauseabonda in cui finti ingenui e finti tonti hanno dato il peggio di sé, è bene rimarcare che anche Governo e Mittal erano perfettamente consapevoli della situazione. Di più, dati i rispettivi ruoli, entrambe le parti sapevano perfettamente che l’ennesima “soluzione di mercato” sarebbe stata un buco nell’acqua. Perché le criticità dell’operazione non risiedono soltanto nello stato disastrato delle linee produttive di Taranto, ma anche nelle condizioni di mercato. Quello siderurgico è uno dei settori produttivi maggiormente affetti da sovrapproduzione, per altro da tempi quasi immemori (1).

Era dunque scontato che il piano industriale con cui Mittal ha messo le mani su Ilva fosse una clamorosa supercazzola. La multinazionale indo-lussemburghese non aveva alcun interesse a sostenere una simile operazione, anche perché nel resto dei propri stabilimenti sparsi per il mondo sconta già un eccesso di produzione (2).

La logica fa, quindi, sospettare che Mittal fosse interessata ad Ilva esclusivamente per condurla a chiusura, eliminando da un mercato saturo una quota produttiva non di poco conto, quanto meno in Europa. La nomina di Lucia Morselli allo scranno di amministratrice delegata è la conferma empirica di questa supposizione dato il suo curriculum. (3).

– La querelle –

Alla luce di questi fatti, la pantomima che si trascina da quasi due mesi tra le parti (da cui lavoratori e cittadini di Taranto sono stati del tutto esclusi, anche a livello mediatico) assume una dimensione assolutamente strumentale, tanto da parte del Governo quanto della multinazionale. L’obiettivo pare, infatti, quello di menare il can per l’aia quel che basta per far digerire alla città l’unica opzione plausibile cioè quella del meno peggio: ambientalizzazione dello stabilimento attraverso riduzione della produttività e investimenti a carico del pubblico – si parla di ben un miliardo – e licenziamenti – il Governo sembra disposto ad accettare un massimo di 1800 “esuberi” – per ridurre ulteriormente i costi all’investitore straniero. Niente di nuovo sotto il sole, ma soprattutto non funzionerà.

– Che cosa si sarebbe potuto fare –

Dato il livello infimo che esprime la classe politica di questo paese, crediamo di poter abbozzare qualche esempio di ciò che in questa situazione si sarebbe potuto fare. A nostro parere la questione non è “se”, ma “come” produrre acciaio in Italia.

Taranto, con la propria condizione, si pone come cartina tornasole di criticità che impongono un intervento non più delegabile al privato. Qualsiasi soluzione a misura della città e dei lavoratori che hanno subito l’invadenza dello stabilimento passa, quindi, per la nazionalizzazione di Ilva.

Questa tuttavia è condizione necessaria ma non sufficiente. Perché la nazionalizzazione sconterebbe comunque le criticità del settore – la già citata sovrapproduzione – e il persistere della questione ambientale.

Nella condizione di nanismo generalizzato che attanaglia l’industria italiana, il ritorno del pubblico in un settore ad elevata competitività come quello siderurgico richiede la sinergia con un partner straniero che, però, non va identificato con “logiche di mercato” come fatto fino ad oggi, ma prettamente politiche.

In questo ambito, a parlare sono i numeri della produzione globale di acciaio. Su un totale di 1,808 miliardi di tonnellate annue, 928 milioni sono prodotte in Cina. (4).

Nazionalizzazione e risanamento: sono le condizioni preliminari. Ma rimane il nodo di cosa e come produrre

L’inserimento in un mercato saturo che fornisce riscontri analizzabili su tempi estremamente dilatati (nell’ordine dei due decenni) suggerisce dunque il confronto con il soggetto dominante del settore, per contrattare quote produttive e conseguentemente dare respiro alla sostenibilità economica dell’intervento pubblico.

Un ipotetico dialogo con la Cina sulla questione potrebbe, inoltre, fare perno sul Memorandum of Understanding che l’allora Governo Conte 1 ha firmato con le rispettive controparti cinesi il 23 marzo scorso.

A favore di un dialogo ipotetica con Pechino vi è anche il “fattore ambientale”. Il gruppo siderurgico Baosteel, infatti, è titolare del più grande impianto a ciclo Corex (5) operante al mondo, una tecnologia capace di abbattere sensibilmente gli inquinanti che caratterizzano le produzioni a ciclo integrale incentrate sugli altiforni, ovvero l’attuale realtà a Taranto.

L’ipotesi fin qui descritta potrebbe, inoltre, essere inaspettatamente difendibile anche nel consesso comunitario, come ben sappiamo molto intransigente nei confronti di qualsiasi pianificazione/intervento pubblico che non siano stati partoriti a Berlino o Parigi.

Il gruppo tedesco Siemens è, infatti, proprietario dei brevetti per le tecnologie siderurgiche Corex/Finex. Ipoteticamente, quindi un governo capace di farsi valere, una volta tanto, in sede comunitaria, potrebbe giovarsi di un argomento particolarmente persuasivo nei confronti degli interessi dominanti nella UE.

– Gli sviluppi effettivi –

Ovviamente nulla di tutto questo vedrà la luce.

Il risultato più avanzato che si prospetta all’orizzonte è quello di:

– ridurre la produzione da ciclo integrale installando un forno (o più?) ad arco elettrico;

– alimentare gli altoforni rimanenti a preridotto (6).

Queste ipotesi pur risultando certamente migliorative rispetto alla situazione attuale, lascerebbero irrisolto il nodo del posizionamento di mercato e quindi della sostenibilità economica dello stabilimento tarantino, oltre ad essere parziali nei confronti di un rinnovamento infrastrutturale radicale a nostro avviso e imprescindibile, anche in funzione della salvaguardia di tutti gli attuali posti di lavoro. Obiettivo, quest’ultimo che nemmeno un governo ancora a trazione parzialmente populista – nei toni – si è guardato dal sostenere senza distinguo.

– Alla fine dei giochi –

In sintesi, anche i fatti di Taranto palesano l’inderogabile necessità del sostegno e dello sviluppo del protagonismo popolare nella tutela degli interessi comuni e nella costruzione di un mondo basato su rapporti sociali e di produzioni nuovi.

Diversamente non ci sarà capitano, strillone stellato, docente universitario o sardina che possano tenere, e infatti si vede…

Note:

(1) Brancaccio – Balle d’acciaio, dal minuto 5:00

https://www.emilianobrancaccio.it/2019/11/07/grandi-balle-dacciaio/

(2) https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/11/13/arcelormittal-chiude-stabilimenti-in-sudafrica-polonia-e-usa-il-colosso-dellacciaio-e-in-fuga-non-solo-da-taranto-il-mercato-si-deteriora/5562103/

(3) Letteralmente una saltimbanco da un vertice aziendale all’altro, dove ha operato in prevalenza con l’accetta, a discapito dei lavoratori ovviamente

https://it.wikipedia.org/wiki/Lucia_Morselli

(4) Fonte Sole24Ore – https://www.ilsole24ore.com/art/arcelormittal-e-ilva-crisi-dell-acciaio-l-italia-paga-prezzo-piu-alto-ACsYPUx

(5) https://www.tarantosociale.org/tarantosociale/docs/2906.pdf

(6) http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2014/10/03/news/ilva-la-tecnologia-pulita-esiste-1.182957

Sì tratta di una alternativa ambientalmente valida rispetto al binomio “minerale ferroso + coke” e industrialmente preferibile alla rifusione del rottame in forni ad arco elettrico. La sua criticità risiede nel consumo di gas naturale che il processo di pre-riduzione richiede e che a nostro avviso apparirebbe più sensato in realtà come quella di Piombino, dove oltre a recuperare l’acciaieria, potrebbe essere utile per dare un senso ad una infrastruttura ad oggi del tutto inutile come il rigassificatore OLT presente nella vicina Livorno, ferma restando la criticità legata al prezzo del gas.

Collettivo Comunista Genova City Strike