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Il mercato delle armi, come funziona l’industria della morte

Conversazione con José Nivoi, lavoratore portuale di Genova, delegato sindacale e militante politico del CALP, Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali di Genova.

Trascrizione dell’intervista realizzata per Radio Sana’a, radio popolare dello Yemen.

José, come prima cosa ti chiediamo di raccontarci la storia del CALP, collettivo dei lavoratori portuali di Genova, la sua fondazione e la sua storia di militanza e di lotta. Come il collettivo politico si è avvicinato alla lotta internazionale, alla sensibiltà internazionalista, come si sono costruituiti gli scioperi degli ultimi due anni che hanno bloccato i carichi degli armamenti militari diretti in Medio Oriente e, come ultima cosa, l’iniziativa del (prossimo) lunedì 25 Gennaio in solidarietà alla guerra criminale in Yemen.

Ciao a tutti, sono José Nivoi, attualmente sono delegato sindacale della USB e sono un militante politico del Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali CALP, collettivo che nasce nel 2011 mentre stavamo ritornando da Roma, per la lotta de “gli indignati”, al ritorno abbiamo sentito la necessità di parlarci come lavoratori del Porto di Genova in una forma più collettiva e non solo in termini sindacali, poiché in quel momento eravamo dentro un sindacato che non ci permetteva di costruire alcun dialogo tra tutti i portuali, i quali, per aziende differenti, lavorano tutti nello stesso Porto. Proprio così, nello stesso modo in cui nacque il primo collettivo dei Lavoratori Portuali, parliamo degli anni 60 e uno di noi, il compagno Bruno Rossi, che all’epoca fu militante di quel collettivo, ci ha dato i consigli grazie ai quali abbiamo preso la decisione di ricostruire quello che un tempo era il Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali. Da quel momento abbiamo iniziato con diverse iniziative, attività di antifascismo nella città, cortei e l’appoggio a tutti quei lavoratori che non appartengono a strutture come quella che abbiamo al Porto e così uscendo come portuali verso il contesto cittadino, appoggiando le lotte degli infermieri, degli operai metalmeccanici, degli operai di piccole imprese e appoggiando i loro scioperi e i loro cortei, nella costante ricerca di costruzione di reti tra i lavoratori, socializzando con loro e dando costante risalto alle proteste degli altri lavoratori. In questo modo abbiamo iniziato ad avere relazioni con tutta la città e con vari collettivi politici; io, per esempio, faccio anche parte del Collettivo Genova City Strike, un collettivo comunista attivo a Genova, altri portuali fanno parte di altri collettivi autonomi, altri anarchici e, in questo modo, i portuali hanno iniziato a portare all’interno del CALP varie sensibilità, prima tra queste l’internazionalismo, che possiamo definire oggi la base della nostra prassi politica.

Quindi abbiamo iniziato in questo modo a guardare ciò che succedeva nei nostri porti e tutto iniziò 5 anni fa, quando iniziammo a vedere dei furgoni bianchi della TOYOTA, sui quali attaccavamo degli adesivi (lo facciamo tutt’ora dato che lavoriamo ancora con le automobili), e così noi attaccavamo sui vetri dei furgoni l’adesivo con su scritto il porto di destinazione del mezzo. Per esempio qui a Genova abbiamo il Genova-Tunisi, che attacchiamo sopra i mezzi cosicché tutti i portuali sappiano che questi arriveranno a Tunisi e quindi devono essere caricati su una determinata nave. Quando, però, abbiamo visto questi furgoni bianchi siamo rimasti abbastanza sorpresi, dato che non si trattava né di una ventina di furgoni, né un centinaio e nemmeno diverse centinaia: erano infinite carovane di furgoni. Allora a quel punto è arrivato un compagno del porto con un video su youtube, erano i momenti della guerra contro Gheddafi, contro la Libia, così abbiamo notato un furgone con sopra un mitragliatore color sabbia con quell’adesivo sopra, quando abbiamo visto tutto ciò noi ci siamo rimasti male, perché eravamo tutti convinti di lavorare in un porto civile, – ma com’è possibile – mi dicevano i compagni, – questi sono armamenti che servono ad armare un intero esercito regolare – che in quel momento era un esercito di mercenari pagati da altri stati per rovesciare il governo libico e noi, in quel momento, ci sentimmo parte di quella macchina da guerra. Da quel momento, quindi, iniziammo a essere più attenti a ogni cosa che accadeva nel Porto di Genova, perché non si tratta di un porto secondario: Genova è uno dei maggiori porti, il decimo porto europeo e primo per importanza del Mediterraneo. Dopo questo periodo fummo informati dai compagni del porto di Le Havre che stavano bloccando un carico di obici, che sono dei cannoni di artiglieria, questi cannoni dovevano andare in Yemen. Dopo questa notizia capimmo che dovevamo seguire quella strada e quel ragionamento. Allora ci arrivò la notizia che stava arrivando un carico di generatori adibiti all’alimentazione dei droni e dell’artiglieria di campagna decidemmo anche noi di bloccare quel carico. Dato che quello era il momento più caldo della guerra tra Yemen e Arabia Saudita, una guerra massacrante, noi decidemmo in quel momento che non potevamo far parte di quella macchina della morte. Noi eravamo soliti far iniziative contro la NATO e contro la guerra che si facevano qui sotto lerivendicazioni NO NATO NO GUERRA e sempre come compagni abbiamo partecipato a queste lotte , abbiamo così capito che era ormai necessario bloccare quel carico di armi diretto alla guerra in Yemen.

Per farlo iniziammo a organizzare campagne di sensibilizzazione per la cittadinanza su quel tema, contattammo varie organizzazioni, collettivi politici, includendo Emergency, Greenpeace, SaveTheChildren, Medici senza Frontiere e tutte le organizzazioni politiche genovesi e nazionali. Così, il 19 Marzo del 2019, chiamammo questa assemblea cittadina con all’interno tutti i soggetti politici e quell’assemblea fu molto partecipata, da lì decidemmo che non appena sarebbe arrivata la nave della Bahri, che in quel caso era la Jamboo, dovevamo organizzare uno sciopero dei lavoratori e un picchetto per bloccare l’entrata del settore dove doveva attraccare la nave. Per quello sciopero dovemmo studiarci molti materiali per capire come funzionava l’Agenzia Marittima Delta, che era l’agenzia incaricata dei carichi di quei generatori: l’Agenzia ci disse che quei generatori erano per uso civile e che erano per la guardia civile dell’Arabia Saudita. Noi non abbiamo mai creduto in ciò che ci disse l’agenzia e quindi chiamammo dei lavoratori che lavoravano in quel settore e chiedemmo a loro di mandarci la foto della placca con il codice di identificazione che, per le leggi internazionali, deve essere obbligatoria per ogni armamento al fine di capire il paese di origine dell’armamento. Mandammo allora queste foto a dei compagni della Weapon Watch (organizzazione che è nata da poco che però già allora era composta da alcuni compagni ben strutturati sull’antimilitarismo) e loro ci dissero che quelle placche erano installate a Double-Use dal momento che le leggi che producono quel tipo di generatori e batterie impongono ai produttori di installarli ad uso sia civile che militare, quindi a doppio uso. In quel momento, però, ricevemmo anche la notizia che l’Agenzia Delta aveva registrato quel carico a scopo militare, mentre l’impresa ci aveva riferito essere a scopo civile.

Con queste due prove andammo dalle autorità portuali a chiedere chiarimenti, dal momento che da un lato passava tutto a scopo militare e dall’altro a scopo civile, “stanno facendo passare dei veicoli militari come veicoli civili. Stanno pure ingannando voi.” dicemmo a loro. “Quale sarebbe la verità?” da lì si attivò l’apparato governativo, la capitaneria del porto, l’autorità portuale, è perfino intervenuto lo Stato con il decreto Cabras che aveva bloccato la produzione di una tipologia di missili che producevano in Sardegna con l’impresa RVM. Così scoprimmo che la guardia civile, di fatto, è una guardia nazionale armata di aeronautica militare, marina militare ed esercito regolare e quindi ci rendemmo conto che circolava una grossa bugia, una falsità per quanto riguardava questo tema. Allora quel giorno scaricammo questi generatori e li depositammo in deposito del porto per poi spostare queste armi al La Spezia, che è un porto militare. Questo perché il Porto di Genova è un porto civile e non è assolutamente un porto militare ed è anche un questione di sicurezza, dato che un porto civile non è preparato per esplosioni o danni che potrebbero sorgere dal trasporto di armamenti.

Allora a Maggio del 2019 abbiamo vinto questa battaglia, abbiamo bloccato quegli armamenti. Nel febbraio del 2020 abbiamo cercato di nuovo di bloccare la stessa impresa navale ma lì abbiamo subito un boicotaggio da parte di alcuni sindacati (CGIL) e quindi abbiamo dovuto organizzare la giornata in totale autonomia, siamo riusciti ad avere un contatto con il ministro degli esteri e gli abbiamo chiesto di applicare la legge 185/1990, legge che blocca il transito degli armamenti che servono in campo bellico. Il ministro ci disse che quella legge non veniva applicata perché il governo dello Yemen aveva chiesto aiuto al governo dell’Arabia Saudita per risolvere questioni interne. Ovvero avevano chiesto al governo dell’Arabia Saudita di bombardare il loro territorio interno per reprimere dei ribelli. Questa è stata la risposta del ministro italiano. Ricordo che l’Italia è uno dei paesi che produce più armi al mondo: Leonardo, Beretta, Techner, l’azienda che abbiamo bloccato noi con i due scioperi. Un’altra è la RWM.

Prima che un arma, o anche un intero armamento venga utilizzato necessita di un lungo processo di creazione, noi facciamo parte di quel processo, questo è un processo che inizia con gli universitari, i quali ricevono una borsa di studio e con quella borsa di studio progettano un programma e a volte, se loro ne sono capaci, quel programma potrebbe venir usato per i bombardamenti da parte dei droni. Noi qui a Genova siamo la parte finale di quel processo, ovvero la parte logistica. Noi in questo caso abbiamo bloccato la logistica. Abbiamo costruito questo facendo rete con le altre organizzazioni come per esempio i compagni che lavorano con la RWM in Sardegna, che già hanno richiesto di fare un piano di riconversione di quella fabbrica.

Per lo stato italiano il mercato delle armi è un mercato ad alta garanzia. Il tema è ragionare nella conversione della fabbrica, proprio dal punto di vista industriale. Una produzione di armi domani potrà essere riconvertita in un altro tipo di produzione. Per la logistica, però, è differente, noi chiediamo che qui nel Porto di Genova non si traffichino armi. Capiamo che per uno stato l’autodifesa è importante, per esempio vedendo l’autodeterminazione del Venezuela, di Cuba, dell’Iran, della Corea del Nord. Però quelle sono pratiche di autodifesa da una forza imperialista, mentre vendere armi a uno stato che sta, per esempio, bombardando lo Yemen è un altra cosa. Questa è ingerenza criminale ed è una guerra che crea garanzia per pochi e massacri per un popolo intero. Qua si tratta di un traffico di armi utile solo al massacro di altri popoli. Questo noi non possiamo accettarlo.

Per fare un esempio su quel che è la Dual-Use del governo: la nave Bahna contemporaneamente con la nave Bahri, che noi qui abbiamo bloccato, è stata scortata dalla marina militare turca dalle coste del Libano fino alle coste libiche, dove ha scaricato vari armamenti per appoggiare gli attuali ribelli. Il gruppo militare che stava combattendo contro le forze ribelli è attualmente appoggiato dalla Francia, quindi appena questa nave Bahna esce dalla costa libica viene intercettata dalla marina francese, a questo punto la stessa marina francese chiede l’applicazione delle leggi internazionali sul traffico delle armi e chiede al governo italiano di catturare il comandante della nave. Perché vi dico questo? Perché quando gli interessi sono nazionali europei e qualcosa si muove contro gli stati europei allora si devono applicare leggi internazionali, ma dove gli interessi vanno a vendere gli armamenti militari, come l’impresa Bahri, invece si possono violare ogni tipo di legge, sia nazionali che internazionali. Questo noi non lo possiamo tollerare.

Tutto questo ci porta alla giornata di Lunedì 25, per dire NO alla guerra in Yemen, noi appoggiamo questa causa perché è un’assurdità che una guerra continui a massacrare un popolo nel totale silenzio di tutti gli altri stati solo perché in questa guerra c’è un cliente che compra le armi a tutti gli altri stati europei e allora tutti gli altri stati si sentono in dovere di stare in silenzio. Questo è inaccettabile. Che non si possa far nulla perché questa è una guerra che produce un grande mercato per gli stati europei e l’Italia principalmente in quanto produttrice di armi.

Seguiremo con questa lotta nel porto di Genova per bloccare il traffico delle armi dirette alla guerra ingiusta contro il popolo dello Yemen.

José, parlando a chi ci ascolterà nei prossimi giorni, da Genova come nodo principale della logistica del mercato delle armi, parte di questa macchina della guerra, del sangue e del silenzio delle potenze occidentali che vedono il profitto sul massacro yemenita, che messaggio mandate voi del Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali di Genova al popolo dello Yemen?

Per la gente che vive in Occidente ci tengo a dire che quelle armi oggi stanno bombardando il popolo yemenita, ma con quelle stesse armi un domani potrebbero bombardare anche qui da noi, perché l’internazionalismo ci insegna che dobbiamo ragionare come classe, e noi dobbiamo stare dalla parte della nostra classe: la classe proletaria, la classe operaia, la classe lavoratrice. Perché i paesi dove il Capitale è forte non saranno mai attaccati, ma lo saranno i paesi dove c’è l’interesse dei capitali, come ad esempio lo Yemen che si trova vicino al Corno d’Africa e quindi è necessario a livello geopolitico sottomettere il paese per gli interessi occidentali. È proprio la fratellanza tra i popoli che ci obbliga a bloccare quelle armi, qui da Genova. L’altra cosa che ci tengo a dire ai fratelli e ai compagni in occidente è che dobbiamo imparare a dire NO, perché in uno stato ricco come il nostro il massimo che possiamo soffrire sono alcune rappresaglie, ma il nostro dovere come lavoratori internazionalisti deve essere proprio il dire quel NO.

Ai compagni yemeniti, voi non siete soli. Noi vogliamo che vi arrivi la nostra solidarietà. Un saluto a tutti.