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Il calcio del popolo in URSS

calcio urssRelazione introduttiva al convegno tenuto a Genova il 20 maggio. Segue registrazione audio dell’intervento della Resistente/Atleti Socialisti e del Professor Mario Alessandro Curletto

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L’iniziativa di oggi, organizzata insieme alla Resistente, si colloca in un ciclo di approfondimenti legati al mondo del calcio, ed in particolare a quegli aspetti, storie e situazioni che lo legano in qualche modo all’immaginario di un altro mondo possibile.

Tempo addietro nel primo di questi incontri siamo andati a scoprire con l’aiuto di Marco Petroni quanto, sotto questo punto di vista, viene espresso ad Amburgo dall’universo St. Pauli, fatto di un modo differente di vivere il legame con la propria squadra ed il tifo per i propri colori, che si legano indissolubilmente al territorio circostante e alle lotte che questo esprime, attraverso la connotazione politica dei propri sostenitori ultrà e non. Abbiamo avuto modo di farci raccontare la commistione tra fattori politici, culturali, ludici e territoriali che in qualche modo rende se non unica molto particolare quell’esperienza e, a cascata, anche il valore che, in una momento di disillusione politica generale e di crollo della rappresentatività delle organizzazione della sinistra storica amburghese, hanno avuto ed hanno tuttora i collettivi interni alla curva nel mantenere vivo il fuoco della coscienza politica anticapitalista ed antifascista e dei valori sociali e culturali propri della classe operaia.

Ma sono tante le storie che attraverso il football si possono raccontare e che hanno come oggetto principale il ruolo di questo sport quale collante e aggregatore degli oppressi nei più disparati angoli del mondo all’interno dei conflitti sociali. Attraverso alcuni testi andremo per esempio a scoprire in futuro storie di calcio e Palestina, Irlanda, Paesi Baschi e non solo.
Oggi invece grazie all’aiuto del professor Mario Alessandro Curletto dell’Università di Genova, faremo un piccolo viaggio che ci porterà un po’ più indietro, in quel quadrante che è stato per lunghe fasi motore principale e cuore pulsante del conflitto di classe nel secolo scorso, quello legato all’Unione Sovietica, per capire che ruolo abbia avuto lo sport in questa storia. Più nello specifico cercheremo di indagare come era organizzato e come veniva vissuto il football all’interno di una dimensione socialista che cercava di creare una società di liberi ed eguali.

Le storie da raccontare sono molte e il prof. Curletto saprà sicuramente trasmettercene qualcuna, ma quello che ci interessa valorizzare ed approfondire maggiormente è il ruolo di un calcio che negli anni della rivoluzione passa dall’essere uno sport ad appannaggio esclusivo dei ricchi e dei borghesi, per il quale era necessario avere tempo e denaro da spendere e che, all’interno del processo rivoluzionario, in poco tempo diventa invece, a partire dalle grandi città e via via in tutti i territori dell’Unione, uno sport del popolo, con le squadre, prima espressione di circoli sportivi elitari, che si trasformano unitamente ai rapporti sociali legandosi indissolubilmente alle strutture produttive, alle fabbriche, alle ferrovie, ai distaccamenti dell’Armata Rossa e, pur in misura minore e con aspetti contradditori al territorio. Fu così che i proletari che si sfidavano nelle piazze presero il posto da giocatori ai borghesi che insieme anche a omologhi stranieri e in particolare inglesi animavano le vecchie squadre e che in quel momento avevano grazie a dio, o meglio grazie ai comunisti, “altre gatte da pelare”.

Generalmente la storia del calcio sovietico viene suddivisa in due fasi principali, prima e dopo il 1936, data del primo campionato sovietico unico, la prima maggiormente caratterizzata da aspetti sperimentali e radicali, talvolta perfino ingenui e al limite della surrealtà, la seconda portatrice di una impressionante crescita numerica ed organizzativa che porterà il calcio, ed altri settori dello sport socialista quali hockey su ghiaccio, arti marziali e discipline ginniche a primeggiare a livello mondiale e a mietere una serie impressionante di successi,.
In entrambi i periodi, in realtà, risulta evidente quanto il partito comunista abbia sempre attribuito allo sport inteso come formazione dei cittadini un ruolo sociale preponderante.

Sin dalla presa del potere da parte dei bolscevichi, l’insegnamento sportivo acquisisce un carattere centrale all’interno del sistema dell’istruzione, e quella che viene definita la “cultura fisica” sarà da subito parte integrante del sistema formativo sovietico, diventando materia obbligatoria in tutte le strutture scolastiche e universitarie. Oltre a questa centralità educativa ed ai principali programmi sportivi delle forze armate, delle fabbriche e delle strutture produttive, ovunque sorgono centri e polisportive in cui ognuno poteva praticare liberamente e gratuitamente lo sport nel proprio tempo libero. Assistiamo a partire dagli anni venti al proliferare di un vero e proprio movimento sportivo comunista, che contrappone alla visione elitaria e competitivistica diffusa in occidente, uno sport che sia parte della vita di ogni lavoratore. Lo stesso comitato olimpico viene contestato e non riconosciuto e alle Olimpiadi (che in un primo momento vengono boicottate) vengono contrapposte le Spartachiadi dei lavoratori e dei popolo sovietici, tenutesi in Urss dagli anni venti fino al 1956, e successivamente mutuate da Cecolslovacchia e Albania.

Per quanto concerne il calcio fin dagli anni della guerra civile vengono tra tantissime difficoltà organizzati i primi tornei e le prime coppe, generalmente su base cittadina con selezioni rappresentative di ogni città che poi si andavano a sfidare in disfide seguitissime a livello popolare, quando riuscivano ad affrontare i viaggi con tutti i problemi logistici ed economici del caso. In questa fase sperimentale troviamo molti elementi, come le classifiche scritte non in base alle vittorie ma ad una serie di complicati fattori che miravano a stemperare agonismo e competizione, ma resta evidente lo sforzo proteso verso un altro sport possibile, che vedrà alcuni risultati politici lampanti.
In primis temporalmente il riconoscimento operaio internazionale che porterà per esempio squadre operaie come il Racing di Lens (all’oggi ricordato per lo più per il “buon natalens” del 2005 alla compagine cittadina della Sampdoria, ma famoso in Francia per la sua connotazione operaia in quanto squadra dei minatori) a invitare una squadra sovietica per un’amichevole gravida di significati extra calcistici; o a una fortissima rappresentativa basca, con campioni del campionato iberico tra le sue fila, che si produrrà in una tourneè in Urss quale riconoscimento al contributo sovietico nella guerra civile spagnola.
Ma è sempre dal punto di vista interno e sociale che possiamo cogliere al meglio la portata di questa movimento che porterà all’inizio degli anni 70 a contare più di 50 milioni di sportivi divisi in quasi 220000 collettivi sportivi. Il calcio insieme all’hockey e alle arti marziali sarà parte trainante di questo movimento e porterà, come detto, a una serie di vittorie di grande rilievo in tutte le competizioni internazionali, e che porterà anche individualmente alcuni giocatori come il “ragno nero” Lev Yashin, o Oleg Blochin a vincere addirittura il pallone d’oro. Con Yashin che resta tuttoggi l’unico portiere ad aver guadagnato questo riconoscimento.
E mentre in occidente gli atleti sono sempre più marcatamente al centro di uno show business discutibile e cominciano a percepire cifre spaventose, nell’Urss e nei paesi socialisti in genere coloro che dedicano la propria vita allo sport guadagnano poco più di un salario medio e sono coinvolti in programmi che uniscono alla cultura fisica e sportiva, anche lo studio più in generale. Per intenderci sarebbe stato difficile in quel contesto sentire delle esternazioni ignoranti e destrorse come quelle di un Buffon o un Perin qualsiasi, tanto per fare un esempio.

Sarà solo con l’avvento di Gorbaciov e della perestroika che le cose cominceranno a cambiare e vedremo i primi giocatori sovietici giocare da professionisti al di qua del muro profumatamente retribuiti e sicuramente molti di noi ricordano l’arrivo a Genova di Dobrovolski e Mikhailichenko che peraltro non misero certo in mostra le loro doti migliori, anzi si mostrarono piuttosto spaesati all’interno di un sistema calcio così differente da quello di provenienza.
Di lì a poco l’assedio occidentale alla galassia socialista porterà alla dissoluzione dell’Urss e alla completa trasformazione in senso capitalista anche del suo sistema sportivo con il suo portato sociale.

Parlare oggi di questo ed evidenziarne le peculiarità non significa in ogni caso negarne le molte contraddizioni che lo hanno segnato nel corso di questi ottant’anni.
Se negli anni trenta queste erano principalmente legate ai conflitti interni all’Unione Sovietica e a farne le spese con vicende travagliate sarà per esempio lo Spartak Mosca, una delle compagini maggiormente identificate con il proletariato, in quanto tale e non con le strutture militari dello stato sovietico, i cui atleti rimarranno talvolta vittime dei mecanismi repressivi, dagli anni settanta saranno invece le dinamiche dettate dalla guerra fredda, con la competizione tra est e ovest, che porteranno all’esasperazione l’esaltazione della superiorità dello sport socialista nei confronti di quelo “borghese” occidentale, perseguita anche attraverso l’abuso di farmaci e sostanze dopanti, a portare decisamente fuori strada le istituzioni sportive dell’est in assoluta antitesi con l’originario spirito sportivo dei decenni precedenti.
Questo va però contestualizzato in una fase storica in cui i principali errori del potere sovietico sono da ricercarsi alla base nella stessa competizione bellica e nella corsa agli armamenti che in qualche modo trascinano quel quadrante geopolitico in un vicolo cieco nel quale in qualche modo l’Urss viene trascinata su un terreno perdente e proprio dell’avversario storico occidentale. Questo è però argomento davvero vasto e su cui il dibattito, seppure obsoleto è da considerarsi ancora aperto . Va da sé che quanto concerne lo sport altro non è che una ricaduta quasi marginale di una sconfitta epocale su un piano complessivo.

Restano all’oggi comunque numerosi esempi che evidenziano un anelito differente che pervade lo “sport socialista”, differenziandolo da quello dei paesi capitalisti tout court. Tra tutti quello di Cuba che oltre a esportare come noto medici in tutto il mondo tra nazioni “amiche” e paesi sottosviluppati, da sempre attua le stesse politiche nel settore sportivo mandando in giro per il mondo in maniera meno pubblicizzata anche istruttori sportivi e che nel 2001 sistematizza questo tipo di accordi con il Venezuela Bolivariano con un grosso impegno e un grandissimo numero di sportivi Cubani che cerca di sostenere la Revolucion Bonita anche in questo campo.