Intervista a Hector Bejar: due golpe nella realtà peruviana

Pubblichiamo una nostra traduzione dell’intervista a Hector Bejar, pubblicata nei giorni scorsi su Resumen Latinoamericano. Bejar è stato ministro degli esteri del primo governo, in carica,  dopo l’elezione a Presidente di Pedro Castillo. La sua nomina è durata pochissimo, costretto a dimettersi dopo poche settimane, Bejar è stata una delle prime vittime di una situazione, per molti versi, paradossale. Bejar ha una lunghissima storia politica, giocata a lungo nelle file della sinistra radicale in Perù, dalla guerriglia comunista interna fino ad arrivare alla carica di ministro nel governo progressista di Alvarado.

Nel frattempo, dopo l’ennesima strage di manifestanti (19 morti nella giornata di lunedì 9 gennaio), il numero dei caduti nella lotta contro il golpe ha raggiunto la quota di 46. La lotta si concentra soprattutto nelle zone del Perù dove è alta la presenza dei nativi. La questione della nazionalità è una delle questioni in campo ma la realtà peruviana non è di facile comprensione. L’intervista ha il merito di entrare in profondità su alcune questioni, a nostro avviso fondamentali, la cui conoscenza permette di comprendere i comportamenti dei vari attori in campo. Buona lettura

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Con oltre 60 anni di esperienza di primo piano nella politica peruviana, Héctor Béjar svela in questa intervista esclusiva il contesto e le motivazioni del colpo di Stato e descrive un Paese in bilico tra realtà e finzione.


Il passo lento del Presidente a cavallo
Il cavallo imbizzarrito che il “professor” Pedro Castillo, allora candidato alla presidenza, sapeva cavalcare a Tacabamba, finì per non essere né una metafora di velocità né di coraggio. Con passo lento e confuso, il suo governo ha scelto, fin dal primo momento, una strategia di ritirata. Un passo indietro e poi un altro. Moderato, per offrire un programma di governabilità a un’opposizione sediziosa e insaziabile. Il più inaspettato dei governi della cosiddetta “seconda ondata progressista” è durato appena quindici mesi.
Tuttavia, bisogna riconoscere che il contesto del suo governo non avrebbe potuto essere più ostile dopo la vittoria di stretta misura su Keiko Fujimori per soli 44.000 voti al secondo turno delle elezioni. Il presidente stesso è diventato rapidamente un non-partito, disaffezionato di sua volontà o abbandonato da alcuni dei suoi, mentre il fuoco amico tra “sinistra settaria” e “sinistra al caviale” si è concluso con la frattura dei blocchi parlamentari. Inoltre, l’elevato turnover dei dipendenti pubblici e vari scandali e accuse hanno trasformato molti ministri in parafulmini, interrompendo tutte le politiche dell’esecutivo. Possiamo anche aggiungere le condizioni economiche avverse generate dalla guerra in Ucraina, e persino le proteste nelle regioni da parte di settori dei lavoratori dei trasporti e di altri soggetti che a priori  costituirebbero la base sociale naturale di Castillo.


A questo si deve aggiungere l’insabbiamento del Congresso: dal blocco parlamentare delle proposte di riforma della sanità e dell’istruzione, alle mozioni di vacanza e alle accuse di presunto tradimento. Insomma, il governo Castillo ha suscitato molte speranze, molte difficoltà e non pochi timori, con il vivo ricordo della delusione causata dalla presidenza di Ollanta Humala, che aveva promesso, e non mantenuto, di essere una sorta di Hugo Chávez nostrano.
Abbiamo parlato con Héctor Béjar Rivera del suo giudizio sul governo di cui ha fatto parte per un brevissimo periodo, come Ministro degli Esteri. L’esperienza politica di Béjar è stata tutt’altro che breve. Per 60 anni ha avuto un ruolo di primo piano nella politica peruviana, dal percorso politico-militare esplorato nel Movimiento de Izquierda Revolucionaria (MIR) e nell’Esercito di Liberazione Nazionale del Perù, alla partecipazione istituzionale al governo Velasco Alvarado e alla sua politica di riforma agraria, nonché all’Assemblea Costituente del 1978. La sua vita intellettuale è stata altrettanto proficua, dalla creazione del Centro per lo Sviluppo e la Partecipazione (CEDEP) alla pubblicazione di numerosi articoli, saggi e libri, alcuni dei quali veri e propri classici della storia e della sociologia peruviana. In questa conversazione facciamo riferimento alla sua vasta esperienza.


Tutto sembrava indicare che la riforma costituente fosse una richiesta con un ampio sostegno popolare. Perché quella bandiera è stata ammainata non appena Castillo è entrato nel palazzo?

È vero che è stata proposta una riforma costituente e che le mobilitazioni continuano a proporre una riforma costituente. Ho sempre detto che non dovremmo parlare di assemblea costituente ma di processo costituente, perché nelle condizioni attuali un’assemblea riprodurrebbe il Parlamento attuale. Corriamo addirittura il rischio che un organo formato frettolosamente in questa situazione di precarietà politica, che il Perù sta vivendo, possa essere addirittura peggiore del Congresso stesso, dando vita a una Costituzione ancora più regressiva di quella del 1993, creata dalla dittatura di Alberto Fujimori.
Occorre quindi un processo costituente, un’opera di educazione e divulgazione con le comunità rurali e urbane, dalla base. E, sulla base delle intense lotte popolari che si stanno svolgendo in Perù– che ora si sono intensificate – dobbiamo iniziare a creare una Costituzione che non sia il prodotto di persone ambigue o di strumenti mafiosi.


E che dire della riforma agraria che l’ex presidente aveva annunciato in pompa magna?

La riforma non è mai esistita. Non era altro che uno strumento propagandistico. C’è stato persino chi ha voluto paragonarla a quella di Velasco Alvarado, ma è ridicolo.


Perché alcune sue vecchie dichiarazioni hanno generato un tale livello di vetriolo nell’opposizione, e come si è arrivati alle sue dimissioni da Ministro?

In Perù non ci sono persone di destra: ci sono le mafie. Questo gruppo di mafie e alcuni partiti politici hanno dato in escandescenze quando sono stato nominato Cancelliere, quindi hanno cercato qualsiasi pretesto per cacciarmi. Hanno usato come scusa due affermazioni che avevo fatto molto tempo prima. In quell’occasione ho affermato due cose: che i primi atti terroristici in Perù sono stati commessi dalla Marina nel 1974 e che l’esercito è stato coinvolto in alcuni atti del gruppo guerrigliero Sendero Luminoso. Secondo loro si tratta di un insulto alle forze armate. Minacciarono un colpo di Stato e il governo, che all’epoca aveva solo 19 giorni, tremò.

Ma a riconoscerlo è la stessa Marina, che ha pubblicato un libro in omaggio a coloro che all’interno dell’istituzione hanno compiuto questi atti di terrorismo contro il generale Velasco. Inoltre, è possibile accertare questi fatti semplicemente leggendo i giornali dell’epoca. Questo accadeva nel 1974, molto prima della nascita di Sendero Luminoso, che ha operato dal 1980 al 1992. In questi dodici anni, i servizi segreti dell’esercito erano incapaci di penetrare l’organizzazione? Erano così inefficienti? È ovvio che per penetrare in un’organizzazione terroristica bisogna praticare il terrorismo: queste sono le sue regole. Chiunque può capirlo, non è necessario essere uno studioso o un esperto. A seguito delle pressioni esercitate dalle forze armate, mi è stato impedito di recarmi al Congresso.
Castillo e la sua cerchia hanno probabilmente pensato che questo avrebbe potuto aggravare la situazione. Se la mia presenza metteva in pericolo il governo, la cosa migliore da fare era togliermi di mezzo. Ed è quello che ho fatto con le mie dimissioni.


Le fogne profonde
Gli ultimi anni di politica peruviana sembrano aver chiarito una cosa: la struttura politica è marcia. Sei presidenti in sette anni, il drammatico suicidio di un ex presidente, una magistratura che è come il cane nella mangiatoia: non governa né lascia governare. Un cognome onnipresente, passato dalla democrazia al governo di fatto, e poi riciclato di nuovo sotto uno stato di diritto precario: il Fujimorismo, un mostro a più teste e a più partiti che ha segnato il polso degli ultimi 30 anni di politica peruviana. Una Costituzione, di origine scellerata, che protegge e tutela ciò che conta
davvero: il modello economico neoliberista, apparentemente intoccabile. Queste sono solo alcune delle profonde fogne che solcano lo Stato peruviano.


Da settimane circolano opinioni contrastanti sul sistema politico del Paese. La destra sostiene che il Perù mostra il fallimento del presidenzialismo in America Latina, mentre altri settori sostengono che il Perù mostra i problemi cronici di un parlamento con poteri e prerogative inconcepibili in altri paesi formalmente presidenzialisti. Qual è la sua analisi di questo teso rapporto tra potere esecutivo e potere legislativo, e che tipo di riforma politica immagina possa risolvere questo problema fondamentale?

Il fatto è che la Costituzione del 1993 è il cattivo risultato di un disastroso colpo di Stato e di un’intricata negoziazione da parte di Fujimori – all’epoca presidente de facto – con l’OSA e la comunità internazionale. Il risultato è stato un testo giuridico pieno di toppe, con elementi del presidenzialismo de facto di Fujimori, che voleva – e alla fine è riuscito – a perpetuare il suo potere.
D’altra parte, la pressione internazionale ha introdotto alcuni elementi interessanti, come l’ufficio del difensore civico, l’habeas data, la corte delle garanzie costituzionali – ora Corte costituzionale – e così via. Ma a questo punto è chiaro che questa Costituzione è inutile. Ha anche un famoso capitolo economico che protegge e rende invulnerabili gli investimenti stranieri, esenti da tasse in Perù. È un apparato che non funziona più. La discussione sui diritti umani, ad esempio, ha fatto molta strada dal 1993: è opinione comune che ci sono diritti umani incorporati in altre legislazioni dell’America Latina e del mondo che semplicemente non esistono in Perù.
Tutto questo è ciò che deve essere spiegato, ciò che deve essere elaborato con la base del Paese. Ciò che sta accadendo è che questa Costituzione, già rattoppata nel 1993, è stata rattoppata sempre di più. Ed è stato questo Congresso, che presumibilmente non vuole che la Magna Carta venga toccata, ad apportare più di trenta modifiche di cui i peruviani non sono nemmeno a conoscenza. Alcune di queste modifiche hanno annullato i diritti esistenti, come il diritto al referendum.


E la questione giudiziaria nella politica? Già nelle ultime elezioni, 10 dei 18 candidati presidenziali avevano processi giudiziari in corso. Quello che vediamo in Perù è una singolarità locale o può essere considerato un capitolo nazionale di una strategia regionale di implementazione del lawfare?

Ci sono entrambi. Dopo il governo Velasco, le forze armate peruviane sono state denazionalizzate e hanno perso qualità: la loro formazione non è più quella di un tempo, non solo dal punto di vista strettamente militare, ma anche in termini di cultura nazionale e generale. La corruzione si è insinuata nell’esercito e anche nella polizia. Tuttavia, sanno che non possono organizzare direttamente un colpo di Stato: non c’è un ambiente favorevole in America Latina o nel mondo per
questo. Ma come tutti sanno, le modalità dei colpi di Stato sono cambiate. Oggi in Perù abbiamo un “PM”, un partito mediatico, molto attivo, monopolistico e concentrato. Un “PF”, la parte dell’accusa. E un “PJ”, il partito della magistratura. Questi tre partiti, insieme al Congresso, sono i quattro grandi attori che governano il Perù, con alle spalle i grandi capitali locali e stranieri.
Questa rete di potere ha fatto sì che Castillo sia stato molestato, stigmatizzato, perseguito, accusato di cinquemila cose, fin da prima che diventasse presidente, il che non significa che Castillo sia un leader pulito, puro, popolare, o qualcosa di simile. Per me Castillo è un personaggio che richiederebbe un’analisi molto più dettagliata. Ma dico anche, allo stesso tempo, che quello che viene fatto contro di lui è un abuso, assolutamente illegale. Il fatto è che il pubblico ministero e il
potere nazionale potranno permettersi il lusso di tenerlo in carcere, in “detenzione preventiva”, per un periodo di tre anni. Siamo arrivati a un punto tale di politicizzazione della giustizia che si può andare in prigione e il giudice può impiegare tre anni per scoprire se si è colpevoli o meno di un reato.


Tutti i golpe sono uguali?

Come già accaduto nella drammatica situazione culminata nel colpo di Stato in Bolivia nel 2019, gli ultimi eventi peruviani hanno dato vita a tante ipotesi e teorie quanti sono gli analisti, gli operatori e gli opinionisti di queste generose terre sudamericane. Grosso modo, queste interpretazioni concorrenti (più che semplici teorie, sono motivi decisivi per l’azione – o l’inazione – politica) sono organizzate in tre gruppi principali. Il primo punto di vista è quello di chi caratterizza l’accaduto come un autogol perpetrato da Pedro Castillo, seguito dal ripristino della normalità democratica con l’insediamento della vicepresidente, Dina Boluarte. C’è stato persino chi ha osato paragonare Castillo a Fujimori.
Un secondo gruppo di analisti sottolinea l’esistenza di “due colpi di Stato”, interpretando come interruzioni democratiche sia il discorso di Pedro Castillo del 7 dicembre, sia la sua destituzione parlamentare e il successivo insediamento di Boluarte, considerato qui un presidente di fatto o illegittimo. Questa teoria è strettamente legata a quella che parlava di “due conservatorismi” e invitava a non schierarsi nel ballottaggio decisivo tra Keiko Fujimori – figlia dell’ex dittatore – e il candidato di Perù Libre l’8 giugno 2021. Entrambe le ipotesi sono state riprese da diversi media “progressisti” in Perù e nel mondo. La terza interpretazione sottolinea l’esistenza di un unico colpo di Stato, consumato per via parlamentare con la vacanza ottenuta, dopo due tentativi falliti, contro l’ormai ex presidente. Un golpe che, da questo punto di vista, seguirebbe un chiaro schema regionale, con precedenti come il golpe parlamentare contro Fernando Lugo in Paraguay e Dilma Rousseff in Brasile.


Ricapitoliamo i fatti: c’è stato un colpo di stato, forse due, chi lo ha perpetrato, chi lo ha fatto? Credo che ci sia un colpo di Stato caricaturale e un colpo di Stato reale. Il primo appartiene al signor Castillo. Finora non ha detto cosa è successo e nessuno può dirlo con certezza. Ma è un fatto puramente aneddotico: quello di un presidente che, senza preavviso, davanti alle telecamere di una televisione nazionale, legge con mano tremante un foglietto che ordina ai signori delle forze armate di chiudere il Congresso per formare un governo di emergenza e riorganizzare i poteri dello Stato.
Innanzitutto, va detto che la chiusura del Congresso è una richiesta nazionale: ad eccezione dei deputati stessi, tutti la chiedono. La dichiarazione, in questo senso, ha soddisfatto una richiesta diffusa. Lo stesso vale per la magistratura altamente corrotta: a mio avviso, non solo dovrebbe essere riorganizzata, ma smantellata del tutto. Ma il modo ingenuo e infantile con cui ha annunciato queste misure è per me un mistero. Ci si deve quindi chiedere cosa sia successo, come sia stato deciso, perché e con la partecipazione e l’influenza di chi.

Ma tutto questo non è altro che un aneddoto disorientante che ci distrae dal fatto centrale. Non si tratta di un colpo di Stato. Il colpo di Stato è arrivato dopo, quando, in violazione di tutte le regole, il Congresso ha rimosso Castillo dall’incarico in pochi minuti. In poche ore Castillo è stato messo in prigione e la signora Dina Boluarte, apparentemente preparata per l’occasione, ha assunto la presidenza della Repubblica. In breve tempo Boluarte ha dichiarato l’emergenza nazionale, rifiutato il dialogo e iniziato a governare il Paese in modo praticamente dittatoriale, perché le garanzie costituzionali erano interrotte. In questo momento qualsiasi poliziotto può sfondare la porta di casa mia ed entrarvi senza spiegazioni: tutti gli uomini e le donne peruviani si trovano ora nella stessa situazione.


E cosa pensa del presunto coinvolgimento di due attori chiave: le forze armate peruviane e l’OSA, il cui segretario generale, Luis Almagro, si è recato tempestivamente nel Paese poche settimane prima del colpo di Stato?

Oggi tutto è possibile. Tutto è immaginabile. Non correrei comunque alcun rischio con qualsiasi ipotesi. Il quotidiano La República ha pubblicato un articolo in cui si afferma che Castillo, insieme all’ultimo ministro della Difesa nominato, il generale [Emilio] Bobbio, aveva chiesto al comandante generale dell’esercito le sue dimissioni il giorno prima del colpo di Stato. Secondo il giornale, dopo una riunione di tutti i comandanti del Comando congiunto, che comprende l’esercito, la marina e l’aeronautica, gli ufficiali in uniforme hanno deciso di respingere la richiesta del presidente, decidendo in quel momento di licenziarlo. Anche se non lo dice espressamente, il giornale suggerisce che siamo in presenza di un colpo di Stato definito da attori militari. Cosa c’entra l’OSA in tutto questo? La cosa curiosa è che, almeno pubblicamente e per quanto ne sappiamo, l’OSA ha difeso Castillo, perché non ha toccato in alcun modo gli interessi statunitensi.
Quando Castillo si recò al Vertice delle Americhe parlò di una “America per gli americani”, ripetendo la famosa frase di James Monroe. Il messaggio era chiaro. E quando la missione dell’OSA è stata in Perù, ha criticato più l’opposizione che lo stesso Castillo. Con le informazioni in nostro possesso, mi sembra difficile ipotizzare che l’OSA sia stata la promotrice di tutto ciò. Continuo a pensare – e naturalmente potrei sbagliarmi – che si tratti soprattutto di un evento locale, guidato da attori locali e mobilitato da interessi locali.
È ovvio che la nostra retriva destra e alcuni gruppi militari odiano Castillo perché non accettano il loro stesso popolo. Alcuni capi militari hanno fatto trapelare informazioni in cui affermano che finché ci saranno forze armate in Perù, la sinistra non governerà il Paese. Il problema allora non è più solo il comunismo, come si diceva una volta: ora è l’intera sinistra a essere rifiutata da queste persone.


L’insediamento di Boluarte è stato fortemente contrastato, sia dai cittadini del Perù profondo che da diversi presidenti e leader della regione. Oggi assistiamo a tentativi di mobilitazione con notevoli picchi di massa e radicalità. La situazione si evolverà nelle prossime settimane, le proteste raggiungeranno un culmine distruttivo, quale soluzione immediata o mediata immagina per la crisi?

Oggi assistiamo a una commedia, una brutta commedia, in cui la stampa, compresa quella cosiddetta “progressista”, è piena di attacchi furiosi contro il Messico, l’Honduras, la Bolivia o l’Argentina. Anche contro l’OSA, sostenendo che oggi tutto il mondo è contro il Perù. Questo per quanto riguarda il livello internazionale e le denunce del governo Boluarte.
Per quanto riguarda la risposta popolare, dobbiamo graduare la realtà: non si tratta del popolo in generale, anche se parliamo di settori molto attivi e significativi. Le classi popolari, in generale, sono più o meno indifferenti a quanto sta accadendo, come al solito. Sono disimpegnati rispetto al mondo politico e da tutti questi eventi. Ma i settori mobilitati, è chiaro, non hanno intenzione di ignorare lo stato di emergenza e continueranno a protestare. Mi è difficile credere che la signora Boluarte non sappia che la prosecuzione di queste misure porterà altri morti e altri spargimenti di sangue. E trovo difficile immaginare come abbia potuto nominare un gabinetto così di destra, legato all’oligarchia finanziaria di [Pedro Pablo] Kuczynski, senza esprimere alcuna capacità politica o volontà di dialogo.
Se Boluarte non lascia il potere, condurrà il Paese alla tragedia. Lei e la sua cerchia sperano che il popolo si stanchi e si smobiliti, che dimentichi i problemi e che continui a farlo per almeno altri due anni di governo. Ma in Perù non c’è alcuna esperienza storica a sostegno di una simile strategia.

Lo smarrimento della sinistra
Sono rare le occasioni in cui un testo scritto 60 anni fa può ancora illuminare il presente di un Paese. È il caso del libro “Perù 1965: appunti su un’esperienza di guerriglia”, scritto nella prigione dell’isola di El Frontón tra il 1966 e il 1969 dallo stesso Béjar, quando faceva parte dell’ELN. Nel testo è scritto che: “A causa dell’insufficienza e della mancanza di continuità del lavoro teorico, la sinistra peruviana nel suo complesso non può mostrare un’interpretazione della realtà basata su studi seri […] Parte di questa zavorra è ciò che abbiamo ricevuto e ciò che ancora ci impedisce di vedere i cambiamenti sociali con completa chiarezza”.

 
Che ne è stato della sinistra peruviana negli ultimi decenni? Perché non è stata in grado di leggere con chiarezza gli ultimi cambiamenti sociali, dalle inaspettate possibilità elettorali di Pedro Castilloa questa insurrezione popolare alle porte di casa?
 
Béjar ci assicura che la struttura sociale del Paese si è radicalmente trasformata negli ultimi tempi. Ma forse i tanti “peruviani in Perù” continuano a determinare le tante sinistre – rurali e urbane, di Lima o di provincia – che abitano il campo popolare. A questi problemi insolubili va aggiunta la presenza di una destra isterica che accusa di essere terrorista o comunista chiunque esprima richieste o anche il minimo disaccordo.

Qual è lo stato attuale del movimento sociale peruviano, indipendentemente da ciò che accade a livello governativo, e come emerge dal breve interregno del governo Castillo?

Il movimento sociale è cresciuto enormemente. In Perù c’è una sinistra politica, che è nell’apparato politico, nel sistema politico, e c’è quella che potremmo chiamare una “sinistra sociale”, che non è sinistra in termini di coscienza politica stretta, ma che ha molti attivisti sociali che sentono di appartenere alla sinistra, hanno idee politiche molto articolate e sono persone molto oneste. Nel Perù contemporaneo ce ne sono migliaia. In questo senso, il movimento sociale è cresciuto enormemente. Ma non possiamo santificare questi processi. La corruzione permea tutto in questo Paese, compresi i settori del movimento sociale.
Ma la verità è che il movimento sociale è più forte e più attivo di qualche decennio fa: lo vediamo oggi, nella sua grande capacità di mobilitazione, nella sua capacità di influenzare il governo. Questo movimento non aspetta gli slogan dei partiti politici: è capace di reagire positivamente e spontaneamente.


In una recente intervista lei ha detto che in Perù c’era una sinistra positivista, che pensava in termini di civiltà e barbarie. Allo stesso tempo, si è molto discusso sull’apparente inesistenza di un movimento indigeno, almeno paragonabile a quello di paesi come la Bolivia, l’Ecuador o il Guatemala. Qual è lo stato del dibattito sulla plurinazionalità in Perù? Le sembra una prospettiva possibile e ragionevole per riorganizzare lo Stato? Qual è la situazione del movimento indigeno e contadino-indigeno?

Ci sono affermazioni e slogan sulla plurinazionalità, ma non abbiamo ancora avuto una discussione seria al riguardo. Nel panorama sociale peruviano, piuttosto complesso e variegato, possiamo individuare diverse sfumature e posizioni indigeniste. I più forti e consapevoli del loro indigenismo – o indianismo, a seconda della prospettiva – sono i popoli nativi dell’Amazzonia peruviana, che si riconoscono come comunità con una propria identità. È il caso, ad esempio, degli Ashaninka e degli Aguaruna. Questi e altri popoli parlano circa 200 lingue, alcune delle quali coprono gran parte del territorio nazionale, dall’Amazzonia centrale al Perù meridionale.
L’altro polo forte, con una forte presenza e identità, è quello degli Aymara, nell’altipiano vicino alla Bolivia, su un confine che è solo politico e dove lo scambio culturale è molto forte. La situazione è diversa per i Quechua. Il Perù è stato il centro del colonialismo spagnolo in Sud America. I Quechua furono sottomessi, ma stabilirono una forma di identificazione con il regime coloniale e ebbero i loro capi e curacas per 300 anni. La nota eccezione è stata Tupac Amaru e la suarivoluzione. Ma questo non è accaduto con il resto delle aristrocrazie, le élite quechua, che sono state piuttosto strumentalizzate dai colonizzatori.


Poi ci sono altre nazionalità, che sono scomparse o sono meno visibili. Il vortice dell’attuale ribellione si trova nel territorio dei Charcas, nella zona di Apurímac, nei dipartimenti centro-meridionali del Perù. Queste persone sono sempre state molto resistenti. Hanno la loro tradizione, anche se non si riconoscono come popolo, ma piuttosto come Apurimenos o Abancaínos e anche come peruviani. Poi abbiamo la gente del nord, di Cajamarca, della terra di Castillo: gente più acculturata, più influenzata dagli spagnoli della Colonia. La situazione è piuttosto variegata e solleva seriamente la possibilità di costruire uno Stato plurinazionale. Non sappiamo ancora come potrebbe funzionare, né quali nazionalità verrebbero eventualmente riconosciute. Ma c’è una richiesta, accettata anche da alcune élite culturali, di una nuova Costituzione che possa accogliere un paesaggio plurinazionale e multiculturale, sebbene ci sia anche un’opposizione attiva da parte di settori della destra più retriva.

Sembra quindi che la questione indigena e quella contadina siano strettamente legate alla questione regionale e soprattutto all’accentramento politico e amministrativo di Lima, ancora eccessivo in un continente in cui l’accentramento attorno alle città-porto è un fenomeno molto accentuato.

Sì, Lima è assolutamente dominante. Ma Lima è anche provinciale. Sono presenti anche persone provenienti da tutto il Perù.


Infine, come vede il Paese nel suo contesto regionale?

Ho sempre pensato che il modo migliore per combattere sia a livello continentale. Intensificare i legami regionali è molto più facile oggi; la tecnologia ci offre tutti gli strumenti per farlo. È un peccato che non ci siano case editrici latinoamericane come quelle di tanti anni fa. Abbiamo media come Telesur, un esempio molto importante, ma forse possiamo fare di più in termini di comunicazione. Altre forze politiche del continente hanno ottenuto risultati politici molto importanti, che dobbiamo ancora assimilare, mentre altre, come quella del Perù, si distinguono per la loro inefficienza. Bisogna fare tutto il possibile per sottrarre il dibattito alla contingenza politica quotidiana. Dobbiamo avere un dibattito politico più profondo, a lungo termine, più continentale e anche più globale.