Reddito di cittadinanza e “quota 100”: due provvedimenti insufficienti e comunque sbagliati

Cominciamo questa prima analisi in un modo un po’ insolito. Partiamo cioè da un giudizio che poi cercheremo di articolare.

Le norme approvate dal Consiglio dei Ministri e presentate via slide dal Governo ci paiono insufficienti, contraddittorie, addirittura pericolose ma non sono un attacco ai lavoratori, per lo meno non “a senso unico” come siamo stati abituati a verificare negli ultimi decenni.

Sono norme che, in alcuni limitati casi, potrebbero impattare positivamente sulla vita di lavoratori, disoccupati e persone in difficoltà, ma risultano comunque insufficienti e per certi versi sbagliate.

Lo diciamo chiaramente perché non apparteniamo a quella sinistra che fa analisi strumentali. Non siamo il PD che, dimostrando tutta la propria natura ferocemente classista e antipopolare, critica il decreto da destra considerandolo un regalo ai “fannulloni”.

Nell’analisi che segue cercheremo quindi di spiegare le nostre motivazioni, concentrandoci sugli aspetti non chiari e contraddittori dei due provvedimenti, ma riteniamo che tali norme vadano criticate nella misura in cui risultano totalmente insufficienti ad alleviare diffusamente il disagio economico sociale che pervade le classi popolari.

Partiamo dal cosiddetto Reddito di Cittadinanza.

Sostanzialmente, a coloro che si trovano in condizioni definite dall’Istat di povertà assoluta (con redditi pro capite inferiore a 780 euro al mese per singola persona) si concede l’utilizzo di una carta prepagata di 500 euro al mese. Il credito disponibile sulla carta, salirà a 780 euro in caso di contratti di affitto da pagare. La platea prevista è di circa 5 milioni di persone.

Ovviamente il reddito di cittadinanza viene condizionato a una serie di prerogative e paletti. Più che una norma legata al welfare si tratta di una norma definibile come workfare. Il termine inglese sta a significare che si tratta di una misura temporanea legata alla ricerca di un lavoro che verrà gestito da appositi programmi dei centri per l’impiego. Saranno coinvolte anche le agenzie interinali private. L’elenco dei paletti, per come si ricava dalle slide del governo, è elevatissimo:

  1. il richiedente non può essersi dimesso da un altro impiego nei mesi precedenti (in questo caso non si tiene conto del fatto che, molto spesso, i licenziamenti coatti vengono fatti passare per congedi volontari);

  2. l’intera cifra di 500 euro dovrà essere obbligatoriamente spesa entro il mese di pertinenza, pena il decadimento del contributo (in questo caso, è evidente il meccanismo per cui i soldi devono necessariamente passare ad altri, rilanciando in parte i consumi, ma impedendo comunque l’utilizzo del denaro in modo oculato a lungo termine da parte del ricevente);

  3. i centri per l’impiego dovranno fornire al titolare di reddito una serie di offerte di lavoro definite come “congrue”, ma non si capisce effettivamente cosa si intenda con questo termine. L’unica cosa specificata è la questione geografica legata alla distanza da casa. Le offerte, in teoria, possono essere rifiutate ma scatta un meccanismo per cui sarà di fatto quasi impossibile visto che per la seconda e terza offerta aumenta la distanza di assegnazione possibile (da 100 Km per la prima fino a 250 Km per la seconda, senza limiti per la terza). Inoltre, è presente un meccanismo per cui, aumentando gli anni di somministrazione, aumenta anche la possibile distanza per il lavoro che viene prospettato. Dopo 18 mesi, per i beneficiari, le offerte non avranno limiti geografici;

  4. I centri per l’impiego dovranno fornire dei corsi di formazione ai quali i titolari del reddito saranno obbligati a partecipare;

  5. i centri per l’impiego potranno decidere che i titolari dovranno fornire almeno 8 ore di lavoro settimanale gratuito per lavori non specificati ma definiti utili socialmente. Recentemente, in una intervista televisiva, il Ministro Di Maio ha dichiarato che i Comuni potranno usarli come contabili o giardinieri…

Vi è poi una norma da cui si capisce bene che il reddito di cittadinanza è una manna per le imprese. Chi assumerà un titolare del reddito, riceverà l’equivalente da assegnare al detentore sotto forma di sgravi fiscali (lo Stato viene quindi liberato dalla somministrazione del RdC al soggetto in povertà, ma l’onere per le casse pubbliche resta perché spostato sulla fiscalità generale a causa dei minori introiti provenienti dalle imprese). In sostanza saranno i padroni a beneficiare dei fondi. Il tutto con una offerta di lavoro “congrua” ma non specificata in termini di contratto e retribuzione.

Sostanzialmente si assumerà un lavoratore, lo si terrà per un certo periodo in modo da usufruire degli sgravi fiscali, lo si inquadrerà in modo da pagarlo pochissimo ricorrendo alla giungla contrattuale creata dai vari jobs act e poi lo si lascerà a casa sostituendolo con un nuovo lavoratore pagato dallo Stato, in una partita di giro a somma zero o quasi per gli imprenditori.

E che dire delle otto ore di lavoro gratuito? Che tipo di lavoro saranno? Saranno servizi aggiuntivi alle persone o saranno lavori sottratti alle aziende pubbliche?

Il problema del RdC appare, quindi, quello di essere uno strumento di avviamento al lavoro coatto, piuttosto che una misura di mitigazione della povertà.

Lavoro coatto che a fronte di una elemosina elargita al povero (e che in molti casi passerà per le tasche dei padroni scaricandole degli oneri fiscali) genera i seguenti effetti nefasti per i lavoratori:

  1. il povero viene criminalizzato perché il provvedimento si muove sull’assunto sbagliato per cui la povertà è generata da una mancanza di incontro tra domanda e offerta di lavoro, quando invece il lavoro non c’è; inoltre la concreta possibilità di essere mandato a lavorare a molti chilometri da casa, ci appare lesiva della dignità del percettore del reddito;
  2. la partita di giro tra Stato e padroni che abbiamo descritto in precedenza, incentiverà la stagnazione salariale attuale, ma potrebbe avere anche effetti di compressione salariale nel caso in cui la recessione economica, ormai citata diffusamente, dovesse continuare.

Vi è poi in generale la questione del reddito in quanto tale. L’idea del reddito di base incondizionato è per noi molto discutibile ma potrebbe meritare una sperimentazione.

Si tratterebbe, infatti, di una norma che, in un periodo transitorio e in una politica economica sostenuta dal settore pubblico, sottrarrebbe milioni di disoccupati in dal ricatto d’accettare qualsiasi lavoro a qualunque condizione.

Nel caso del reddito di cittadinanza che viene qui messo in atto, comunque, come abbiamo visto le condizioni di ricattabilità crescono.

Dunque, a fronte del ginepraio di eccezioni critiche che la questione del reddito slegato dal lavoro genera, pensiamo si debba affermare che la povertà si combatte con:

misure attive di creazione del lavoro, quindi politiche d’intervento pubblico nell’economia;

1) la cancellazione di tutte le forme contrattuali precarie create a partire dal pacchetto Treu;

2) l’istituzione di un salario minimo intercategoriale;

3) provvedimenti di limitazione della circolazione dei capitali.

 

La legge Fornero rivista

Sul tema delle pensioni e della cosiddetta “quota 100” la situazione è ancora più complessa e non è facile districarsi. Anche qui si può fare una considerazione di fondo: l’impatto migliorativo sulle condizioni dei lavoratori appare più teorico che pratico.

A oggi le criticità appaiono legate principalmente a due fattori:

1) L’entità dell’assegno pensionistico: sicuramente si prenderà meno, in quanto mancheranno anni di contributi, ma l’entità della riduzione sarà legata a molti fattori. In particolare dipende da quanti anni lavorativi si hanno alle spalle. In alcuni casi la decurtazione potrebbe essere notevole soprattutto in caso di passaggio totale al regime di calcolo contributivo. Allo stato attuale i media parlano con frequenza di tagli compresi tra 20 e 30 percento. Inoltre, ai dipendenti pubblici viene ulteriormente differito il pagamento del TFS (la liquidazione per intenderci) che passa da tre a cinque anni. Il quadro appare dunque economicamente negativo per i pensionandi con “quota 100”.

2) il secondo elemento è legato alla piccola fascia temporale di applicazione delle norme. Nel 2021 infatti, su imposizione della Commissione UE, occorrerà rivedere l’intero sistema in base alla sua sostenibilità macroeconomica. Ciò significa che quota 100, con ogni probabilità, sarà solo una piccola finestra in grado di beneficiare pochissimi lavoratori.

Come il RdC, anche il provvedimento sulle pensioni è stato speso in forma totalmente spettacolarizzata. Per comprenderne la reale natura oltre la propaganda, è necessario prestare attenzione agli interessi concreti da cui è nato, che appaiono drasticamente differenti rispetto a quelli pubblicizzati dal governo.

Ciò si capisce sia dalla natura temporanea (fino al 2021) del provvedimento, ma soprattutto dal suo carattere punitivo, dato questo essenziale.

Una misura che intende liberare una platea, seppur limitata, di lavoratori dalle forche caudine della legge Fornero non lo fa imponendo la riduzione dell’assegno pensionistico e il pagamento della liquidazione ulteriormente differito per una specifica parte di soggetti (i dipendenti pubblici).
È quindi evidente che il governo intenda obbligare il lavoratore a scegliere tra la padella della permanenza al lavoro fino a età insostenibili (considerando anche la struttura economica ad alta intensità di sfruttamento delle imprese italiane) e la brace di un prepensionamento che gli porta via un quarto dell’assegno pensionistico, consegnandolo, in molti casi, a una vecchiaia economicamente austera per non dire precaria.

Dunque se il lavoratore non ci guadagna niente da “quota 100” chi lo fa? Le imprese e l’amministrazione pubblica, entrambe accomunate dall’esigenza di svecchiare la propria manodopera, sostituendola con giovani più funzionali alle necessità attuali e contrattualizzabili a condizioni peggiori.

Questa esigenza, oltretutto, sembra saldarsi strutturalmente con il lavoro coatto imposto dal RdC, in particolare per quel che riguarda l’obbligo per il percepente del reddito, di accettare impieghi posti a notevole distanza dalla propria residenza.

Se messa in relazione con la furia anti-migranti della Lega, la condizione appena descritta ci pare mostri l’intenzione di sostituire, a livello economico, l’immigrazione esterna con quella interna: è risaputo che un’ampia porzione di platea “interessata” al RdC risieda al Sud, mentre le realtà economiche che devono aumentare la produttività per essere competitive, risiedono nel nord-est, area della base elettorale leghista.

Conclusioni

Torniamo da dove eravamo partiti: ci sono condizioni intollerabili di povertà e disoccupazione.

Se il reddito di cittadinanza porterà un minimo di sollievo in questi casi, sarà una cosa positiva. La legge Fornero è un obbrobrio contro i lavoratori e i modi per fare andare in pensione qualcuno con un po’ di anticipo dovrebbero essere accolti positivamente.

Il problema di RdC e “quota 100” è che sono ampiamente insufficienti e contraddittori.

I due provvedimenti non affrontano i veri nodi del problema e sono attuati in una cornice assolutamente inaccettabile nella quale la maggioranza di risorse più che ai poveri e ai disoccupati andrà ai padroni. I quali continueranno a sfruttare, ad applicare contratti indecenti, a licenziare ingiustamente e a ricevere aiuti dallo Stato. In una situazione in cui i profitti di banche e padroni sono sempre aumentati e il divario con i poveri è diventato insostenibile.

Il problema vero è che in Italia le leggi come il jobs act e la giungla di precarietà introdotta dal pacchetto Treu in poi sembrano intoccabili. Così come non si affronta il problema delle risorse per il welfare e dell’intervento pubblico in economia.

Oggi occorrerebbe una vera patrimoniale sui grandi redditi. Occorrerebbe una lotta senza quartiere contro i grandi evasori. Occorrerebbe una legge contro le delocalizzazioni e contro il trasferimento dei patrimoni all’estero. Con queste risorse si potrebbero aumentare i salari, creare nuovi posti di lavoro, aumentare i diritti e andare tutti in pensione in tempi ragionevoli.

Invece si studiano norme che rischiano di essere temporanee, inutili e, alla lunga, dannose. Norme alle quali bisogna rispondere denunciandone contraddizioni e mancanze. Tutto il contrario quindi, delle critiche rivolte dal PD e dall’establishment economico e finanziario europeista.