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Repressione per l’occupazione del Disfor: comunicato di Vedo Terra

In conseguenza all’occupazione del Disfor nella primavera del 2021, l’Università ha deciso di procedere contro alcuni degli studenti e delle studentesse che hanno partecipato all’occupazione dell’Università. Il modo di procedere della struttura universitaria è ben spiegato nel comunicato di Vedo Terra che riportiamo integralmente. Così come sono spiegati i motivi che hanno portato alla lotta.
Su questo non abbiamo nulla da obiettare. Siamo stati solidali e partecipi con l’occupazione, ne abbiamo condiviso le finalità e i metodi.
La modalità con la quale l’Università cerca di rispondere ai problemi sollevati dagli occupanti è significativo del modo attraverso il quale una istituzione intende le relazioni sociali.

Le lotte sociali non hanno bisogno del paternalismo di nessuno. La chiarezza di obiettivo e metodo fa parte della propria necessaria autodisciplina. Sapere ciò che si vuole ottenere, con quali soggetti sociali si vuole interloquire e contro quali soggetti si rivolge l’azione.

In solidarietà con i compagni e le compagne di Vedo Terra ecco il loro comunicato:

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Originale qua

L’avvio di una serie di provvedimenti disciplinari ricevuto in risposta all’occupazione del Disfor (Aprile e Maggio 2021) testimonia l’ennesimo tentativo di esautorazione del gesto politico attraverso una repressione dai connotati tecnocratici ed aziendalistici.

L’Università è il luogo in cui – da almeno mezzo secolo – le giovani generazioni studiano, analizzano e criticano le società passate e quelle presenti e in cui si cimentano nel sogno di quelle future.

Nella convocazione delle commissioni (che avrà inizio in data 11 gennaio) finalizzate a sottoporre a giudizio disciplinare nove degli student* occupanti si rende chiaro il tentativo di deresponsabilizzazione politica dell’Università, da cui discende il processo di infantilizzazione dei soggetti coinvolti, trattati alla stregua di bambin* da mettere dietro alla lavagna. Approccio naturale per chi teme il confronto in questi termini perché sprovvisto di argomenti convincenti a sostegno di un sistema economico e sociale indottrinato dalle mire produttive del capitalismo. Approccio naturale e ben organizzato, assunto da ogni istituzione di questo Stato.

Distanti e radicalmente critic* verso quel modello, contestualizziamo e rifiutiamo la soluzione atomizzante dell’Università di Genova che sceglie di sottoporre a processo – convocandoli uno ad uno in commissioni differenti – soltanto nove tra gli student* occupanti, negando la natura strutturalmente collettiva di un gesto politico come quello dell’occupazione.

Le dichiarazioni del rettore, che respinge sistematicamente la possibilità di un dialogo condotto in questi termini nel contesto universitario ribadendo che il suo «non è un ruolo politico», sono un chiaro esempio della gestione manageriale dell’istituzione, che ricorre alle categorie di disciplina, ordine e diritto per far fronte ad un atto attraverso il quale una compagine irriducibile di corpi e menti ha innescato un conflitto dal potenziale critico ed eversivo. Il piano della discussione si limita così alla violazione di beni, servizi e regolamenti necessari per consentire all’apparato amministrativo di continuare a funzionare,  alimentando, sotto spoglie neutrali, quello che in realtà corrisponde ad un preciso progetto politico: fornire competenze tecniche e nozionistiche tese al mantenimento del modello produttivo capitalistico, accessibili specificatamente ad una determinata fascia di popolazione e nell’esclusivo ed escludente interesse del mercato neoliberale.  

In un contesto sociale di questo tipo, la pandemia ha profondamente caratterizzato il momento storico che stiamo vivendo non solo per l’eccezionalità che essa incarna ma anche per aver contribuito a radicalizzare una precisa e nota linea di demarcazione di classe che, come d’abitudine, ha garantito sostegno e risorse in relazione alle condizioni materiali: il legame tra diritti che rivendichiamo – come quello allo studio, al lavoro ed alla salute – e la possibilità economica di accedere agli strumenti necessari per la didattica a distanza e per lo smart working, così come la praticabilità di cure nel sistema sanitario, ha assicurato la prosperità per poch*, miseria e disperazione per i/le più.

Il rispetto delle norme anticontagio (distribuzione e utilizzo di mascherine, gel disinfettante, tracciamento degli ingressi ed organizzazione degli incontri assembleari in spazi aperti) nonché la totale assenza di casi Covid nel corso dell’intera occupazione, testimoniano come la coscienza della crisi pandemica sia maturata collettivamente non solo con riguardo verso esigenze sanitarie, ma anche in considerazione delle modalità e delle ragioni per cui la salute – quando salute è salute sociale ed afferisce a mente e corpo – diviene argomento di riflessione politica.

Tali considerazioni vogliono evidenziare come questa esperienza abbia dato carne e sangue a bisogni ed urgenze reali e condivise a livello cittadino e non si sia configurata né nelle intenzioni, né concretamente come un goliardico momento di ribellione, a dispetto del modo in cui l’Università ha voluto dipingerla agli occhi dei suoi e delle sue student*. Movente politico e centrale del gesto è stato infatti la volontà, in un momento tanto drammatico, di restituire a Genova uno spazio in cui dare respiro e contenuto alle necessità avvertite in termini generazionali e non solo, prima fra tutte quella di incontrarsi per confrontarsi al fine di immaginare modalità di convivenza altre per tutti e tutte e di organizzarsi nello sforzo di realizzarle. Non a caso tra le tematiche affrontate nel corso delle numerose assemblee che hanno avuto luogo durante l’occupazione citiamo: istruzione pubblica e precariato; PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza); riflessioni sulle contraddizioni vissute in carcere e sull’accento posto in merito dalla pandemia; il sottofinanziamento alla sanità pubblica; la lotta dei portuali del CALP con USB contro il commercio di armi; valutazione (dati alla mano) delle modalità di attribuzione dei fondi alla ricerca; estrattivismo come fonte di devastazione dei territori; lotte nella logistica con il sindacato di base dei S.I. COBAS; storia del movimento NO TAV; difesa legale; approfondimenti storici sui fatti di Odessa; riflessioni sull’autonomia operaia e la rivoluzione algerina (…). Ricordiamo inoltre la presenza di figure rilevanti e politicamente impegnate come, tra gli altri, Ascanio Celestini, il Dottor Ugo Zamburru (psichiatra e fondatore del Caffè Basaglia di Torino), l’attore Antonio Carletti (…).

A fronte di tutte le considerazioni critiche maturate nell’Università occupata continuiamo a ribadire come sia debole e illusorio continuare a scaricare le responsabilità delle profonde mancanze istituzionali sulla pandemia. È sempre più evidente, infatti, come il modello universitario italiano sia stato finemente architettato in base agli obiettivi dei governi che si sono succeduti negli ultimi trent’anni, in linea con l’impronta capitalistica e neoliberale della nostra società e in totale fedeltà verso il mantenimento del classismo e della precarietà esistenziale ed economica cui si vuole condannare la nostra generazione.

«Uno degli obiettivi dell’istruzione è favorire la mobilità sociale, ossia il miglioramento del proprio status sociale di origine» (AlmaLaurea, “L’origine sociale dei laureati”, 14 ottobre 2021).

Falso.

È noto che la selezione ed il compimento di un percorso universitario dipendano ancora in larga parte dalle condizioni materiali della famiglia a cui lo studente o la studentessa appartiene, punto di intersezione privilegiato tra il capitale culturale e quello economico. I dati confermano che il 30% di coloro che giungono a completare un corso di laurea possiede almeno un genitore laureato e che la maggior parte degli student* è condizionata nella scelta di un corso identico a quello intrapreso dal genitore. Analogamente al titolo di studio dei genitori, inoltre, i laureati e le laureate in corsi di magistrale a ciclo unico provengono in maniera più consistente da famiglie con reddito elevato (33,3%) rispetto a chi ha frequentato corsi di primo livello (20,3%) o magistrali biennali (22,1%).

L’altra discriminante – non meno indicativa e anzi fondante – che condiziona l’accessibilità al diritto allo studio è il sottofinanziamento dell’istruzione e della ricerca perpetrato da Stato e regioni, che va ad ampliare e rafforzare le disuguaglianze già esistenti tra le classi e a ridurre la possibilità di accedere a servizi di welfare studentesco, come borse di studio e alloggi. In Italia, infatti, solo il 12% degli/delle iscritt* beneficia di una borsa di studio e solo il 3% degli student* di una residenza universitaria. Circa il 69% vive ancora con i propri genitori per via dei medesimi tagli alle risorse. Ad esempio, nell’A.A. 2018/2019, su circa 93.500 student* fuori sede idone* a richiedere un alloggio studentesco, solo il 34,5% ne ha poi realmente potuto beneficiare. Da qui, la figura sempre più frequente dello student* idone*-non beneficiari*.

Si aggiunge alla nostra analisi un ulteriore elemento: la deindustrializzazione del Paese, che ha generato crisi profonde soprattutto a svantaggio del Mezzogiorno in Italia e che ha coinciso con l’incremento sempre più sistematico del capitale immateriale connesso a quella che si definisce comunque industria del turismo, ha comportato per la nostra generazione la possibilità di reperire un lavoro spesso limitata e circoscritta al terzo settore, caratterizzato da condizioni sempre più precarie ed ostacolanti rispetto alla necessità di costruzione di percorsi personali e collettivi futuri in linea con le passioni e gli interessi che coltiviamo anche nelle sedi universitarie e che possono divergere dalle linee dettate dal sistema.

Tali linee emergono limpidamente dall’ultimo PNRR, attraverso il quale lo Stato stanzia il 21,04% dei fondi per digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo; il 31,05% per rivoluzione verde e transizione ecologica; il 13,26% per infrastrutture per una mobilità sostenibile; il 16,13% per istruzione e ricerca; il 10,37% per inclusione e coesione ed infine l’8,16% per la salute.

Alla luce di quanto evidenziato in termini di rilevanza storica e politica del provvedimento in atto – dunque – pretendiamo risposte in rotta di collisione con il livello tecnocratico e aziendalistico a cui l’Università si appella nel dare contenuto a norme e regolamenti volti a custodire ordine e disciplina per dare lunga vita al capitale, senza tuttavia sapersi esimere e saper dar conto delle sue stesse contraddizioni.

La principale contestazione mossa dall’Università concerne infatti l’interruzione di pubblico servizio causata dall’occupazione, la quale non avrebbe consentito lo svolgimento di attività in presenza che altrimenti sarebbero state garantite da UniGE. Ma, contrariamente a quanto affermato pubblicamente più volte, quasi nessun corso è stato ripreso in presenza, quando invece si poteva deciderlo – in base ai DPCM in vigore e alle relative norme Covid  vigenti – nei due semestri dell’A.A. 2020-21,  prima e dopo l’occupazione – e ancor oggi numerosi corsi si tengono unicamente a distanza. Anche il servizio bibliotecario della biblioteca del Disfor, di cui ci viene imputata la sospensione, non era mai stato riattivato in forma completa, tanto da spingere la responsabile del servizio a contattare gli occupanti per vedere se si potesse collaborare in tal senso (sfortunatamente il giorno stesso della fine dell’occupazione).

È chiaro quindi che l’Università abbia fatto una scelta, che abbia valutato in piena autonomia ed assumendosene le responsabilità, come risposta all’occupazione, di non riaprire il Disfor e di mantenere inattivi alcuni servizi – imputandone poi la responsabilità alle/agli occupanti.

A questo punto la domanda sorge spontanea:

Scegliere di non investire in alcun modo sull’istruzione pubblica; privarla dei mezzi necessari ad una sua reale emancipazione dal mercato dei privati; renderla accessibile solo a chi possiede i mezzi economici e tecnologici necessari; continuare a concepire lo studio come un servizio più che un diritto – non è forse questa la vera interruzione di pubblico servizio?

Davanti ai rapporti di forza ed al conflitto politico sorti in seno all’occupazione, non vi è stata risposta né reale intercettazione delle nostre rivendicazioni ma, puntuale, è subentrata la repressione.

Ribadiamo con forza di essere student* che vivono ed esperiscono le contraddizioni di questo momento storico in relazione ad un piano di analisi strutturale ben più ampio e complesso, student* che chiedono e pretendono risposte e assunzione di responsabilità da parte della governance universitaria, rifiutando la condizione imposta – attraverso la convocazione in una commissione disciplinare – di utenti che contravvengono ad un regolamento aziendale.

Sarà la rabbia che ribolle nel sangue delle nostre vene a muovere la storia e di fronte al futuro che ci attende risponderemo – resistendo sempre ai propinatori di un mondo classista ed elitario – con la lotta.

La politica si fa nelle strade come nelle assemblee ed è lì che sempre ci troverete!

Collettivo Vedo Terra