Approfondimenti

L’ordine nel caos di una città perfetta

Quello che segue è un lungo testo sul tema delle migrazioni. Il testo riporta alcune parti teoriche e alcuni interventi più personali scritti da Nicolò (riconoscibili per il virgolettato). Si correda anche con un testo, in fondo, tratto da Furore di John Steinbeck. Il PDF è scricabile qua

Siamo disponibili per presentazioni, dibattiti e altro per discutere di questi temi. Per contatti scrivere a stellarossagenova@hotmail.com oppure direttamente alla pagina fb Genova City Strike-NST

Indice

Pag. 3: La posizione dell’appeso/Introduzione

Pag. 9: Il business/Demografia: presente e futuro

Pag. 19: Il tempo dell’attesa/Accoglienza made in UE: Schengen e Dublino

Pag. 28: La colonizzazione interna/Esercito industriale di riserva

Pag. 34: L’ordine nel caos di una città perfetta

Pag. 39: Conclusioni/Domande/Epilogo

Pag. 48: Estratto da Furore di John Steinbeck

La posizione dell’appeso

“La posizione dell’Appeso dei Tarocchi è quella di un’ antica forma di tortura: essere appesi a testa in giù per un piede, con le mani legate dietro la schiena.

L’ Appeso ha però un volto imperturbato, quasi in meditazione, che sopporta impassibilmente il dolore. La carta simboleggia un sacrificio, una condizione sfavorevole da sopportare per raggiungere un obiettivo. Sono necessari degli sforzi importanti, delle rinunce, sarà necessario superare delle prove difficili. E’ necessario fare buon viso a cattiva sorte, in quanto reagendo in modo istintivo e sbagliato questa situazione temporaneamente difficile rischia di trasformarsi in condizione permanente. Bisogna sacrificarsi, essere lucidi nelle condizioni di difficoltà e saper sopportare. Sacrificio temporaneo, per poter migliorare la propria situazione. Questo è quello che si trova spulciando su internet se si vuole sapere qualcosa sulla carta dell’Appeso nei Tarocchi. Non è forse questa la condizione in cui si trovano i sans-papier, i richiedenti asilo o, perché no, i subalterni in generale? “Fare buon viso a cattiva sorte” si può tradurre in mille modi: raccogliere pomodori sotto il sole per dieci ore sognando il pranzo completo, che farai alla domenica grazie a quei pochi soldi che riceverai in cambio. Attraversare velocemente una galleria ferroviaria nella speranza di riuscire a passare il confine pur sapendo che il treno potrebbe investirti. Viaggiare nascosto dentro a una valigia per riuscire a prendere l’aereo che ti porterà dai parenti. Non reagire alle avances che alcuni ragazzi rivolgono alla tua fidanzata anche se la stai tenendo per mano perché, se scoppiasse una rissa, questo potrebbe influenzare negativamente l’esito della tua richiesta di asilo politico. Dipingere gratis le panchine dei giardinetti per fare una bella impressione sulla commissione che deciderà se, effettivamente, eri perseguitato per via del tuo orientamento sessuale o sei un semplice migrante economico. Se non ci si comporta come l’Appeso, se si perde la pazienza, se le tue ferite non possono aspettare ancora a lungo prima di essere medicate e per protesta devasti la tua stanza perché qualcuno ti ascolti, rischi di beccarti una pallottola in gola come Bobb Alagiee…”

1. Introduzione

Il dibattito riguardante la questione migranti, si protrae da anni in Italia. Nello specifico, con l’approdo di Salvini al Ministero degli Interni – che il leghista ha trasformato nel surrogato di uno studio televisivo da cui gestire una campagna elettorale permanente – crediamo che ci siano alcune questioni dirimenti, che una forza realmente votata alla tutela degli interessi della classe lavoratrice dovrebbe tenere bene in mente.

In prima battuta è essenziale combattere la retorica del tutto strumentale per cui l’Italia sarebbe soggetta a un’autentica invasione.

Nonostante gli strepiti della stampa siano incessanti, in special modo quella più prossima alle posizioni del Ministro dell’Interno, i dati ci forniscono uno scenario in cui l’emergenza è esclusa.

Dal 2013, infatti, il trend che i dati del Ministero degli Interni ci mostrano è quello di una riduzione degli arrivi.

L’immigrazione non è dunque un fattore numericamente esplosivo e fuori controllo. Neppure quella cosiddetta “irregolare”.

Allo stesso tempo, anche l’immigrazione “regolare” che l’ISTAT misura in 5 milioni d’individui su una popolazione complessiva di 58 milioni, a cominciare dal 2011, ha registrato un rallentamento consistente nella propria crescita, a ulteriore dimostrazione che la supposta invasione non esiste.

Il dato ulteriore, per cui il 50% degli immigrati è formato da soggetti provenienti dai paesi dell’est Europa che per ultimi si sono aggregati alla UE, costituisce piuttosto un preoccupante segnale del declino che erode l’Italia.

Un declino che trova riscontro nei dati inerenti l’emigrazione di cittadini italiani all’estero.

Un trend, anche quest’ultimo, che ha assunto dimensioni preoccupanti a iniziare dall’approdo della crisi subprime USA in Europa, nel 2008, ma che ha registrato un incremento particolare dal 2011.

Vi è quindi una coincidenza temporale tra crisi di attrattività del nostro Paese nei confronti degli immigrati e la crescita degli emigranti autoctoni, segnatamente in fascia giovanile.

Proviamo quindi a far emergere un diverso punto di vista, partendo dalla necessità di declinare la questione in chiave strettamente materialista.

Una chiave di interpretazione lontana anni luce dagli ingessamenti vetero marxisti (quelli che a due secoli dalla nascita di Marx non hanno ancora compreso che il filosofo di Treviri non ci ha fornito un’edizione “sociale” dei 10 comandamenti, bensì un metodo analitico, alla stregua di quello galileiano, che va applicato alla situazione concreta di volta in volta mutevole) e che dunque non può e non deve determinare artificialmente la realtà per piegarla ai propri dogmi.

Partendo dall’analisi, è per noi doveroso diffondere tra gli sfruttati la consapevolezza che la chiave di volta di questa presunta “emergenza” risiede nell’imposizione di quelle politiche che da parecchi anni sono divenute stella polare dell’azione di tutti i governi che si sono succeduti fino a oggi.

Riteniamo, in base a queste considerazioni, che l’odierna questione migratoria è destinata a non trovare soluzione alcuna, tanto nelle politiche xenofobe della chiusura dei porti, quanto in quelle libertarie che reclamano l’abbattimento dei confini in maniera totalmente idealistica senza neppure porsi il problema di cosa comporterebbe una simile scelta e di quali politiche dovrebbero accompagnarla.

Ciò impone l’esigenza di costruire una posizione autonoma di classe in materia, per fare sì che l’odio si sposti verso il nemico autentico, che non è lo sfruttato con una pelle di colore diversa o una cultura lontana dai cardini occidentali, bensì il modo di produzione capitalista, quello dei ricchi sfruttatori, dei padroni.

Nemico è dunque l’ordine liberista che ha plasmato l’Unione Europea fin dalla sua fondazione, che impone l’austerità del pareggio di bilancio, che incrementa le spese in armi, comprimendo quelle sociali di ogni genere, con la retorica dei “soldi che non ci sono”.

Si tratta di una narrazione volta soltanto a mettere gli sfruttati in concorrenza mentre viene distrutto ciò che resta di uno stato sempre meno sociale, in cui il lavoro non ha più alcuna dignità, in un processo di scomposizione tra appartenenti alla stessa classe che credevamo relegato alla memoria storica ottocentesca.

Ciò di cui abbiamo bisogno, invece, sono investimenti in scuola, cultura, sanità, trasporti, lavoro e stato sociale. Ovvero in quei settori che molte delle anime belle impegnate in questi mesi a ritrarsi sui social network con le magliette rosse e firmare petizioni hanno contribuito attivamente a demolire.

Occorre spezzare le catene di sfruttamento con cui il modo di produzione capitalista ha legato i paesi sviluppati, seppur in declino come il nostro, ai paesi storicamente sottosviluppati.

Uno sfruttamento che si appoggia a classi dirigenti e mafie locali che garantiscono il perpetrarsi della spoliazione di risorse materiali e umane da quei territori.

Lo scopo del presente testo è quindi quello di affrontare il tema dell’immigrazione attraverso uno sguardo di classe, fornendo innanzitutto dati per comprendere il fenomeno e sviluppare idee per gestirlo da comunisti.

L’analisi di fase ci consegna una situazione per la quale, da un lato occorre uscire da una visione tutta legata all’emergenza presunta, dall’altro occorre attrezzarsi per un fenomeno che diventerà nei prossimi anni ancora più importante.

Il business

“…A proposito di giochi, chi lavora, chi scrive e legifera contro l’integrazione spesso gioca la carta dello “stop al business dell’accoglienza”. Ora, di fronte a questo slogan si può fare dell’antirazzismo vero o dell’antirazzismo sterile.

Difendere l’accoglienza è il minimo per chiunque abbia un minimo di cervello o quantomeno un pezzetto di cuore, ma difendere a priori il sistema dell’accoglienza in Italia è ben altra cosa. Sarebbe come difendere la pratica dell’occupazione delle case sfitte a prescindere, noncuranti del fatto che, se esistono case occupate da singoli individui che agiscono autonomamente e da movimenti di lotta per la casa, esistono anche quelle in mano al racket delle occupazioni, il quale è spinto più dall’affitto che riscuote ogni mese che da spirito di solidarietà. Chi, in buona fede, può difendere, senza i dovuti distinguo, un sistema che permette a chiunque di fare profitto sulla disperazione delle persone? I criteri per aprire centri di accoglienza e poter ricevere i famosi 35 euro a persona al giorno sono più permissivi di quanto dovrebbero. Questo crea una situazione dove nello stesso calderone si trovano cooperative serie, competenti e rispettose della dignità umana e altre che “accoglienti” si sono solo improvvisate. Perché? Beh, molti hanno intravisto nell’accoglienza un modo come un altro per ottenere un guadagno, si sono adattati al mercato, pensando che quello fosse uno dei pochi settori immune dalla crisi. Molti hanno preso la palla al balzo per poter svolgere una sorta di racket legalizzato, mirando più ai 35 euro da gestire che all’integrazione di chi avrebbero ospitato. Probabilmente c’è chi si è fatto i suoi conti e ha optato per la sicurezza di aprire un centro di accoglienza piuttosto che l’incertezza legata a una licenza del taxi o all’apertura di una tabaccheria. Un’attività come un’altra insomma, “immigrati ce ne saran sempre di più, gente che prende il taxi e fuma chi lo sa…” Così, paradossalmente, capita che ad occuparsi di situazioni spesso delicate, che richiederebbero competenze e un minimo di “vocazione” sia gente che tutto sommato gli immigrati non li ha mai visti di buon occhio. D’altronde mi chiedo: come può un Paese che da oltre trenta anni tenta di mettere le mani su Cesare Battisti accettare dei rifugiati politici, se non per lucrarci? Come può spacciarsi il nostro Paese da porto sicuro per chi è perseguitato in patria se vieta di leggere, scrivere (non solo lettere da spedire, anche propri pensieri, riflessioni), parlare (se non da sola) e relazionarsi con altre detenute a Nadia Lioce la quale, alla stregua dei mafiosi, è isolata nella tortura del 41 bis? Che rispetto della dignità può garantire a chi arriva se abbiamo un sovraffollamento carcerario imbarazzante? Che libertà millanta uno Stato che condanna una studentessa di antropologia per una tesi di laurea sul movimento No Tav?”

2. Demografia. Presente e futuro

Residenti

Secondo i dati delle anagrafi comunali, al 31 dicembre 2017, risultano residenti in Italia circa 60 milioni di cittadini, pari a circa 26 mila nuclei familiari, con una media di 2,31 componenti per nucleo. La serie storica ottenuta dai dati dei Comuni (con leggerissime discrepanze rispetto ai dati del censimento effettuato nel 2011) ci parla di un incremento dei residenti nel periodo tra il 2004 e il 2011 fino alla situazione odierna il cui i dati, pur oscillando, si mantengono più o meno costanti rispetto alla media.

Dal 2013, comunque, la popolazione residente in Italia è in calo. Ciò è il risultato di due fattori combinati: il saldo migratorio (trasferimento di cittadini da altri stati) e il saldo naturale dovuto alle nascite e ai decessi. Nel 2017 mentre il saldo migratorio risultava in attivo (circa 86 mila stranieri residenti in più) il saldo naturale segnava un dato negativo con circa 191 mila cittadini in meno dovuto alla scarsa natalità.

Qui può essere utile una serie storica. Dal 2002 al 2017 il saldo migratorio è positivo con una media di circa 300 mila residenti nuovi ogni anno (fanno eccezione gli anni intorno al 2011 con un saldo negativo e il 2013 con un saldo positivo di circa 1 milione di residenze in più). Per quanto riguarda invece la differenza tra nascite e decessi, il saldo è costantemente negativo dal 2006 a oggi.

Sostanzialmente in Italia abita la stessa quantità di persone dal 2002 a oggi con una maggiore percentuale di stranieri e un minore numero di italiani giovani.

Stranieri

A questo punto proviamo ad analizzare la provenienza dei cittadini stranieri, le mansioni svolte, etc. Cominciamo quindi a differenziarne lo status giuridico.

Escludendo coloro che hanno ricevuto la cittadinanza italiana, pur in assenza di ius-soli (che consente di godere in pieno dei diritti politici e civili), gli stranieri regolari in Italia sono circa 5 milioni. Costoro possono lavorare e spostarsi senza visto. Il documento che lo consente è il permesso di soggiorno che, per essere rilasciato, richiede alloggio, contratto di lavoro, presentazione di casellario giudiziario.

Il permesso di soggiorno può essere revocato a seguito di un decreto di espulsione, per assenza prolungata dal territorio nazionale o per la richiesta del medesimo permesso ad altri paesi della UE.

Il numero degli stranieri regolari è aumentato negli anni dal 2004 al 2014, per poi calare leggermente ed essere oggi stabile, rappresentando circa l’8% della popolazione totale. Sono sostanzialmente “migranti economici” che si trovano in Italia per motivi di lavoro. Si nota comunque come tale percentuale è di molto inferiore a quella presente in Spagna e Francia (rispettivamente tra il 10 e il 15%) e decisamente inferiore a quella dei paesi del Nord Europa.

Più della metà dei cittadini stranieri regolari proviene dai paesi europei, in particolare dell’est. La comunità più consistente proviene dalla Romania. Forte anche la presenza di cittadini albanesi e ucraini. In totale si tratta di circa 2,5 milioni di persone.

I restanti provengono da Asia e Africa (circa il 20%) mentre solo il 7% proviene dal continente americano.

Gli asiatici provengono specialmente da Cina, Filippine e India. Gli africani dal nord del continente, in particolare Marocco, Tunisia ed Egitto ma anche dall’Africa centrale (Nigeria e Senegal).

Gli americani provengono dal Sud America dividendosi soprattutto tra provenienti dall’Ecuador e dal Perù.

Dove abitano?

Essendo migranti economici (in cerca di lavoro e reddito), la percentuale di popolazione straniera in Italia è distribuita in modo diseguale rispecchiando lo squilibrio economico del nostro Paese. Alte percentuali di cittadini stranieri si ritrovano soprattutto al Nord, in particolare nelle periferie delle città come Milano e Firenze o nelle aree produttive di Emilia e Veneto. Nel centro Italia sono localizzati principalmente a Roma. Nel resto, in particolare nel Sud o nelle isole, le percentuali di stranieri oscillano tra il 2 e il 5%, ben al di sotto della media nazionale.

Un popolo giovane

Se tra gli africani e gli asiatici predominano leggermente i maschi, per i provenienti dall’Europa e dall’America vi è una predominanza di donne. Gli uomini hanno età leggermente inferiori mentre l’età media è più alta per le donne. Inoltre, pur rimanendo ovviamente numeri molto più bassi dal punto di vista assoluto, si nota una percentuale di giovani e giovanissimi molto più alta tra i cittadini stranieri a causa di una maggiore tendenza a fare figli. Si tratta, ovviamente, di un trend in gran parte dovuto alla minore età media assoluta tra cittadini italiani e stranieri. Il maggior numero di nascite comunque, allo stato attuale, non è in grado di compensare il calo complessivo della popolazione italiana.

Irregolari

Sul numero degli stranieri privi di permesso di soggiorno i dati sono molto aleatori e vengono spesso strumentalizzati per operazioni propagandistiche. I dati parlano di un numero di irregolari sparsi per il territorio italiano compreso tra 200 mila e 500 mila.

In realtà, spesso si confonde tra irregolari tout court e richiedenti asilo. Secondo le norme internazionali non è possibile rimpatriare nessuno se la domanda di asilo non è stata evasa. La destra parla di circa 600 mila clandestini ma in realtà spara numeri a caso per fare sensazionalismo xenofobo.

In sostanza, una stima precisa non è fattibile, l’unica possibilità è calcolare la differenza tra il numero di identificati da parte della polizia e il numero di rimpatri. In base a questo calcolo, i numeri si riducono a circa 50-60 mila unità. Facciamo notare che, secondo i dati statistici, l’immigrazione irregolare riguardava il 50% degli ingressi nel paese negli anni ’90, mentre oggi è soltanto il 6% circa. E la maggior parte sono sostanzialmente richiedenti asilo.

Profughi

I profughi in Italia provengono, sostanzialmente, dalla Libia. Sulla loro presenza i dati sono certi e si possono ricavare dall’incrocio tra i numeri delle partenze, degli sbarchi e delle presenze nei centri di accoglienza. Al 30 giugno 2018 sono presenti nei centri di accoglienza circa 160 mila profughi. Sono il risultato degli sbarchi che, negli ultimi anni, sono molto diminuiti.

Alla fine di giugno del 2018, il numero di sbarchi è diminuito del 80% rispetto al 2017 e del 76% rispetto al 2016. Eppure su di loro si concentra il massimo dell’attenzione, anche in relazione alle falle del sistema di accoglienza, alle contraddizioni del sistema UE conosciuto come sistema di Dublino, fino alla polemica sulla chiusura dei porti.

Ma a questi dati vanno anche aggiunti quelli relativi alle partenze e ai morti in mare. Ricaviamo allora quanto segue: nel 2014 sono morte durante le traversate nel Mediterraneo circa 3 mila persone, salite a circa 4 mila l’anno seguente, 5 mila nel 2016 per poi scendere nuovamente a 3 mila nel 2017. Nel 2016 è morto in media un migrante sulle navi ogni 88 mentre l’anno precedente era uno su 250.

Migranti e lavoro

Più di 2 milioni di cittadini stranieri sono al lavoro in Italia con un tasso di occupazione pari al 58,5% (leggermente superiore al tasso di occupazione medio complessivo, dati del 2016). Sono soprattutto lavoratori dipendenti (circa 86% degli occupati) con mansioni operaie (77% contro un analogo 31% degli italiani). Non mancano i lavoratori autonomi (circa il 13,4%) e vi sono circa 571 mila imprese gestite direttamente da stranieri.

Pur rimanendo elevato il tasso di disoccupazione, vi è una leggera disparità tra italiani e stranieri con una disoccupazione percentuale che rimane più alta tra i cittadini italiani. In compenso gli italiani, in percentuale maggiore, svolgono lavori meglio retribuiti.

A parità di mansioni gli immigrati guadagnano infatti, in media, il 30% in meno nonostante abbiano lavori considerati stabili o a tempo indeterminato. Inoltre vi sono settori in cui la disparità tra il tasso di disoccupazione tra stranieri e italiani è elevatissima: sono i servizi collettivi e personali dove gli immigrati forniscono il 40% del lavoro complessivo. Numeri superiori alla percentuale di presenza complessiva di migranti (tra 8 e 9%) si registrano nei settori dell’agricoltura, nelle costruzioni, in alberghi e ristoranti. Sono questi i settori dove si crea quel fenomeno che, nella vulgata comune, viene definito come “furto di lavoro”. Si tratta di settori che in Italia, dato lo spostamento dell’economia verso il terziario sono fondamentali, ma in cui gli immigrati svolgono mansioni non qualificate.

Previsioni demografiche

Fino ad ora abbiamo tentato di fornire una fotografia del fenomeno migratorio attraverso i numeri. Ma occorre anche considerare che questa situazione è in evoluzione costante. Gli istituti di ricerca, in particolare l’ISTAT, si occupano anche di prevedere in base a simulazioni scientifico-probabilistiche cosa potrebbe accadere nei prossimi anni.

Abbiamo già visto il trend: una diminuzione del saldo naturale tra nascite e decessi. Una compensazione del calo della popolazione solo parzialmente frenato dall’aumento della quota di immigrati. Nei prossimi anni la tendenza diventerà ancora più marcata con una previsione media di residenti intorno al 2045 che si dovrebbe aggirare sui 54 milioni e che potrebbe arrivare a 46 milioni nel 2065. Sono ovviamente stime che hanno numerose variabili ma si tratta comunque di previsioni ufficiali. L’immigrazione non sarà quindi più in grado di colmare la perdita demografica e ci sarà un netto aumento dell’età media complessiva che passerà dagli attuali 45 anni a oltre 50 anni nel 2065. Inoltre, pur essendo previsto un aumento della fertilità media, il saldo naturale tra decessi e nascite pare destinato ad essere sempre più in negativo.

Nel periodo compreso tra il 2015 e il 2065 ci potrebbero essere circa 2,5 milioni di stranieri in più. Siamo ovviamente ben lontani da ogni forma scientificamente definibile come invasione (o peggio, “sostituzione etnica”). La differenza sarà ovviamente avere 7,5 milioni di stranieri in una popolazione di molto inferiore con una età media molto più alta.

Sta a noi decidere se, in un paese del genere, il colore della pelle o la provenienza geografica è, e sarà sempre di più, il problema principale degli sfruttati.

Pur in una situazione complessa cerchiamo di giungere a una prima sintesi. Non esiste nessuna invasione di stranieri in Italia. Sono un numero assolutamente inferiore alla media europea.

Il fenomeno dell’immigrazione va poi analizzato tenendo distinta la categoria dei migranti economici (in gran parte provenienti da aree interne alla UE) da quella dei profughi. Per questo vale davvero poco la pena inseguire i Salvini o i Minniti di turno.

La pretesa che il blocco degli sbarchi dei profughi o gli accordi con la Libia per impedire o rallentare le partenze abbiano un’attinenza con le condizioni sociali legate alla crisi o alla mancanza di lavoro in Italia è palesemente falsa. Al limite attiene alla questione dell’accoglienza immediata e delle risorse impiegate ma non c’entra nulla con “l’esercito industriale di riserva” o con l’abbassamento generalizzato delle condizioni di lavoro in Italia.

Contestualmente occorre però riflettere sui dati dell’occupazione e degli stipendi legati direttamente alla presenza di manodopera straniera. La leggera disparità tra il tasso di occupazione relativa alla popolazione straniera e italiana, così come la disparità salariale a sfavore degli immigrati è un dato che ci racconta qualcosa che deve essere attentamente analizzato. Così come è urgente considerare il dato demografico.

Nella seconda parte del testo analizzeremo quindi altre questioni. In particolare il sistema dell’accoglienza italiano che presenta parecchie falle all’interno di un quadro di normative europee totalmente discutibili, la questione del mercato del lavoro in Italia e la questione generale delle cause delle migrazioni.

Per concludere non bisogna però dimenticare un dato: la popolazione carceraria in Italia. Qui il quadro è chiaro: il numero di detenuti nelle carceri italiane presenta una percentuale di stranieri che è di molto superiore alla percentuale tra i residenti.

Su questo occorrerebbe fare una riflessione che, da un lato, richiede l’analisi dei reati che vengono contestati (sono in gran parte piccoli reati mentre per i reati maggiori la situazione si inverte), dall’altro, l’analisi culturale e del contesto.

Su questo va fatta chiarezza perché non se ne esce semplicemente negando il problema. Per un cittadino sfruttato in Italia la tendenza a subire furti o la piccola criminalità è un problema importante. La presenza in Italia di cittadini sradicati dal proprio contesto culturale, in condizioni difficili nel presente e nel futuro, ha una ricaduta sui comportamenti reale e non negabile.

E’ un fenomeno che non c’entra nulla con una presunta tendenza a delinquere di questa o quella etnia ma è un dato su cui occorre avere le idee ben chiare in quanto sarà la realtà dei prossimi anni.

Il tempo dell’attesa

“Viviamo in una città dove la metropolitana chiude all’ora di cena. Chi lavora in centro, finisce alle 22 e deve raggiungere la casa in Val Polcevera o viceversa impiega il doppio del tempo che impiegherebbe se la metropolitana fosse aperta; ma per far viaggiare più velocemente le merci siamo disposti a bucare le montagne che separano Torino da Lione. Impieghiamo un’ora per raggiungere il mare coi mezzi pubblici ma per renderci più attraenti agli occhi degli investitori (stranieri, ma a quanto pare loro sono gli stranieri di serie A) espropriamo case e terreni che hanno il torto di trovarsi sulla linea che percorrerà il terzo valico, con buona pace di chi da lì non se ne voleva andare e di chi respirerà un po’ di amianto. Il tempo dell’attesa è l’autobus che non passa mai e quando passa non riesci nemmeno a salire, è la fila per una prima visita medica dopo il viaggio della speranza e quella per essere smistati a seconda della nazionalità. E quella per capire se sei un migrante economico o hai qualche possibilità di rientrare negli standard del rifugiato. E quella per le impronte. E quella per il rinnovo del permesso di soggiorno. E quella per incassare un assegno. E quella per il pranzo. E quella per la cena. Quella all’anagrafe. Quella alla posta. Quella per lavarsi. Una vita in fila. In piedi. Ad attendere. Attendere che la domanda di asilo venga esaminata. Attendere che il tale ufficio verifichi che effettivamente hai diritto alla tale agevolazione. Attendere una casa popolare, un colloquio di lavoro, il proprio turno al centro per l’impiego, il momento giusto per scavalcare la recinzione che ti separa dalla Spagna e, quindi, dalla fortezza Europa, una nuova sanatoria. È nella città che i contrasti, le contraddizioni esplodono. A Genova ci sono esempi lampanti: i palazzi storici, tra cui la sede del Comune, di via Garibaldi e le alcove delle prostitute. La vetrina spenna turisti del Porto Antico (che è una S.p.a.) e i bettolini di Sottoripa dove con quattro euro puoi saziarti e bere. Le case senza ascensore del Carmine e le case con giardino di Castelletto. Tutto a pochi metri di distanza. In un centro storico che si vorrebbe pacificato ogni giorno migliaia di persone attraversano quelle strade strette per lavorare, poco importa se in maniera legale o no. C’è chi vende rose, accendini e fazzoletti e vaga attendendo che finalmente qualcuno sia interessato all’acquisto e chi, sulle spalle, ha un grosso sacco blu di plastica e attende che la polizia municipale se ne vada per esporre su un telone i suoi cappelli. C’è chi lancia in aria aggeggi luminosi attendendo che qualche bambino implori i suoi genitori di comprarglielo e chi attende un cliente desideroso di comprare un rapporto sessuale. C’è chi attende gli universitari che tra un bicchiere e l’altro potrebbero essere interessati a comprare due spinelli e chi aspetta che qualcuno voglia tagliarsi i capelli nel suo negozio. C’è chi attende la giovane clientela dell’unica discoteca in centro nella speranza che i ragazzi non siano troppo agitati perché fa il buttafuori e per una sera non vuole avere problemi e chi invece spera abbiano voglia di ballare perché è il resident dj. Poi ci sono gli addetti al guardaroba e gli addetti alle pulizie che sperano soltanto in un po’ di educazione e attendono che il locale chiuda per finire in fretta e tornare a casa coi primi autobus della mattina. Fuori dalla discoteca ci sono i taxi che attendono qualcuno che li porti il più lontano possibile perché sono sul posteggio da due ore e sperano in una buona corsa. Un centro storico che è da secoli porto di mare, incontro di culture (anche se spesso la parola “cultura” viene usata come sinonimo di “razza”), intreccio di tradizioni non può e non deve diventare il, tutt’altro che naturale, proseguimento del Porto Antico. Un posto dove si mescolano migliaia di storie e destini, dove la gente vive o prova a vivere, dove lavora, non può essere ridotto a una vetrina per turisti priva di macchie. Le scritte sui muri, i manifesti appiccicati con la colla da parati, gli adesivi non sono stati messi da un regista che ha voluto trasformare il centro storico nel set di un film sugli anni ’70, sono lì perché, da sempre, chi ha qualcosa da dire può farlo in quel labirinto che sono i vicoli. Perché può farlo? Beh, “può” è una parola grossa, in teoria nei vicoli non vige una legge diversa da corso Europa, ma le vie di fuga, le possibilità di farla franca o addirittura non essere notati sono infinitamente maggiori, per cui, di fatto, negli anni il centro storico ha saputo esercitare un contropotere e strappare sempre maggiori spazi di libertà al controllo. Da alcuni anni questa cosa viene ostacolata in varie forme: dall’introduzione di pattuglie miste di carabinieri, poliziotti e alpini o attraverso l’inasprimento delle sanzioni per reati come l’imbrattamento e l’affissione abusiva, passando per la criminalizzazione del mercatino notturno di Sottoripa e di quello diurno di via Turati. Si è addirittura ridotto il tempo concesso agli artisti di strada per le loro esibizioni nello stesso luogo!!! Le leggi firmate Orlando-Minniti sembrano dare carta bianca e maggiori poteri agli organi competenti e non. E non perché, oltre a rendere norma lo stato di eccezione legalizzando nei fatti la guerra ai poveri in atto in questo Paese da anni, ad avere qualche potere in più saranno anche gli operatori sociali. Potere che però, fortunatamente, non tutti sentivano il bisogno di avere, in quanto andrebbe ad intaccare il rapporto di fiducia creatosi, spesso con fatica, tra l’operatore e il richiedente asilo. Si cerca, in pratica, di far svolgere il “lavoro sporco” anche a chi proprio non ne vuole sapere e anzi ha scelto il lavoro di educatore, e non quello di guardia penitenziaria, credendo di fare tutt’altro. Tutto ciò già avviene da anni nel Corpo dei vigili del fuoco: nonostante i continui tagli al settore a questi lavoratori viene chiesto di essere parte attiva nelle operazioni di sgombero degli edifici occupati e negli sfratti.

Viene abolito il terzo grado di giudizio per la richiesta di protezione internazionale, istituendo una sorta di Santa Inquisizione apposita per queste che potremmo definire le “nuove razze”: richiedente asilo, migrante economico, rifugiato politico, profugo, clandestino ecc. ecc. Con questa legge si palesa l’intenzione, un tempo quantomeno camuffata, di eliminare i poveri invece che la povertà, di eliminare il “degrado”, quando il vero degrado è la povertà nelle sue cause più che nelle sue manifestazioni, di eliminare l’opposizione sociale e non i motivi che spingono dei ragazzi a fare, per esempio, un blocco stradale. Non è nascondendo dalla vista e dalla pubblica via i senza tetto, i mendicanti e gli svuota secchi che queste persone troveranno un tetto o un lavoro. Questa è politica, non è matematica, la proprietà transitiva non funziona. La politica sarebbe l’arte del saper prendere le decisioni più giuste ma in questo caso si sta praticando l’arte, tutt’altro che nobile, del prendere le scorciatoie più impervie. Chi chiede soldi nei parcheggi al Porto Antico per esempio, su decisione del sindaco e del prefetto, può ricevere una sorta di “mini foglio di via”, ovvero viene diffidato dal sostare, o anche solo passare, da quella via, piazza, zona, città per un periodo che può essere di 48 ore, sei mesi, due anni. Questo “daspo urbano” è già stato applicato ad alcuni senza tetto a Bologna e Padova, a due artisti di strada a Savona e anche a Genova. Nel mirino del Ministro degli Interni c’è anche l’agibilità politica dell’opposizione sociale. Mai come oggi possiamo affermare che, quanto sperimentato sui migranti e gli ultras, viene allargato a tutta la popolazione. Per parafrasare Brecht, gli zingari e gli ebrei se li son già presi, ora, visto che a quanto pare funziona, si stanno prendendo chi protestava contro tutto questo. Dunque? Ancora una volta non resta che aspettare? Attendere che vengano a prendere qualcuno di troppo, qualcuno che proprio non se lo meritava o comunque se lo meritava meno di chi aveva la colpa di dormire sotto a dei portici? Ma qualcuno si indignerà almeno quella volta? Protesterà? Enrico Brizzi nel suo Jack Frusciante scriveva che “ci stanno imbrogliando tutti quanti: se sei un tossico, un handicappato, un albanese il gruppo ti emargina, ti sbatte fuori, non puoi neanche iniziare la partita. Brizzi con “gruppo” si riferiva ai compagni di classe, alla compagnia di coetanei che si ritrova ai giardinetti, alla comitiva del bar. O almeno a una parte di questi. Si riferisce al gruppo di “quelli che contano”. A quel gruppo, non a uno dei gruppi. Cosa succede quando il “gruppo dei vincenti” è lo Stato? Anzi, cosa succede quando il “gruppo di quelli che contano” è l’Unione Europea, il G20, il G8, il WTO, il FMI, la BCE ecc. ecc.?”

3. Accoglienza made in UE: Schengen, Dublino

Il punto nodale è ovviamente quello della differenza tra migranti economici e profughi, con la questione dei clandestini che sta a cavallo delle due. Per chiarezza espositiva consideriamo quindi solo la questione profughi per capire come la UE lo gestisce.

In teoria, nella UE è in vigore il Sistema Schengen che garantisce, tra le altre cose, l’abbattimento dei confini interni e la libera circolazione intra-UE delle persone. Uno dei fiori all’occhiello della cosiddetta Europa unita sarebbe dovuto essere l’abbattimento dei confini ma la realtà è molto diversa. In varie occasioni i confini sono stati ripristinati con i controlli alle frontiere sia in casi di manifestazioni internazionali, sia in casi di attentati alla sicurezza degli Stati. L’emergenza profughi rientra in questi casi.

Per quanto riguarda la gestione dei profughi, valgono le successive modificazioni del trattato di Dublino. A oggi siamo al Dublino III ma si sta studiando la quarta versione.

Sostanzialmente, il trattato prevede che i profughi e le richieste di asilo vengano esaminate dal paese in cui avvengono gli sbarchi. Ciò significa che il principale carico grava sui paesi UE all’interno delle varie rotte dell’immigrazione, paesi tra cui vi è l’Italia. Progetti di riforma del trattato di Dublino che provano a fornire una maggiore corresponsabilità di altri paesi nella ripartizione dei migranti sono attualmente in fase di stallo, per i veti incrociati dei governi degli Stati aderenti all’UE.

In Italia vige poi il sistema di accoglienza detto Sprar. Anche qui spieghiamo brevemente di che si tratta.

I comuni e gli enti locali interessati possono aderire al sistema di accoglienza e integrazione stipulando una convenzione che prevede fondi in cambio di servizi. Solo il 40% dei comuni in Italia (dati del 2016) ha aderito, presentando progetti che sono stati vagliati.

In teoria non andrebbe confuso il sistema Sprar con i centri di primo intervento (CAS, Misna, etc.), che si dovrebbero occupare della prima vagliatura dei profughi. In realtà, la situazione di perenne emergenza spesso fa sì che tra i centri vi sia parecchia confusione.

Questi centri sono finanziati con fondi europei, il più delle volte, non gestiti direttamente dai comuni o dagli enti locali, ma da strutture del terzo settore che hanno presentato vari progetti.

In teoria il sistema Sprar è intoccabile. Esistendo una emergenza deve essere gestita nel modo migliore favorendo il soggiorno temporaneo dei profughi, cercando di svilupparne l’inserimento in un modo armonico. Questa operazione costa soldi. I famosi 35 euro per migrante al giorno.

Qui si innesca il discorso del “business dell’accoglienza” di cui ha parlato il Presidente del Consiglio Conte al momento della sua accettazione dell’incarico.

Vediamo di cosa si tratta. In realtà i 35 euro per migrante (ma si tratta di un valore medio) vengono gestiti da cooperative le quali stabiliscono catene di appalti per il vitto, l’alloggio etc.

I migranti vedono pochissimi euro giornalieri, sono costretti in strutture fatiscenti, mangiano malissimo. Ciò comporta che, nell’attesa di una risposta alla richiesta di protezione che dura in media due anni, i migranti debbano vivere da clandestini mentre la magistratura ha scoperto, in numerose occasioni, giri truffaldini attraverso i quali i soldi per l’accoglienza consentono grandi profitti a imprenditori senza scrupoli legati alla criminalità organizzata. Come corollario, i migranti senza un euro stazionano ai bordi delle strade a chiedere l’elemosina, si introducono in giri di piccola criminalità e nel lavoro nero. Il tutto concentrato in alcuni ghetti visto che, in molte zone d’Italia, lo Sprar non è in vigore e alcuni comuni rifiutano di attivarlo.

Accoglienza made in Riace: l’esempio “eretico”

Come abbiamo poc’anzi descritto, il modello Sprar, nella stragrande maggioranza dei casi, ha generato malversazioni nelle cooperative del terzo settore dedite all’accoglienza (ma molto spesso alla ghettizzazione) dei migranti.

Esiste tuttavia un’eccezione a questo stato generalizzato di cose che per dimensione del proprio successo merita di essere elevata a caso di studio.

Ci riferiamo al modello Riace.

Il piccolo comune della Locride calabrese, conosciuto per i celebri Bronzi, è uno dei tanti borghi dell’Italia centro – meridionale che, dal secondo dopoguerra, ha vissuto un declino socio-economico estremamente marcato, concretizzatosi in un rapido spopolamento cui lo “sviluppo” ha risposto, per altro senza successo, solo in funzione speculativa attraverso la cementificazione – anche in odore di ‘ndrine – di ampie porzioni del litorale ionico.

In questo contesto, nel 2004 viene eletto sindaco Domenico Lucano, che sviluppa un modello d’accoglienza “attivo” dei migranti, capace di rivitalizzare il morente tessuto socio-economico locale.

La ricetta del neo sindaco è dirompente nella propria semplicità: la declinazione assistenzialista dell’asilo ai migranti, a Riace è bandita, così come la gestione mediata dalle necessità di profitto delle cooperative del terzo settore.

Il pubblico, nella visione di Mimì Capatosta – soprannome di Lucano – non abdica al proprio ruolo, anzi lo rivendica per rilanciare il territorio che amministra.

Con i fondi che il comune riceve aderendo al programma Sprar, l’amministrazione Lucano consente ai migranti (i primi, una comunità curda, hanno raggiunto Riace nell’ormai lontano 1998) di recuperare gli stabili abbandonati del centro storico che poi abiteranno.

L’opera di ripopolamento, consente la riapertura della scuola e la rinascita delle piccole attività commerciali locali cui se ne aggiungeranno di nuove gestite in prima persona dai migranti.

Il rinnovato spirito di comunità che l’amministrazione Lucano ha saputo ricostruire a Riace è testimoniato dal fatto che la rinascita del borgo è dato strutturale e non transitorio in quanto, con il trascorrere degli anni, una quota consistente di coloro erano stati accolti nel paese come profughi, decide di prendervi fissa dimora.

L’anomalia del modello Riace non si ferma tuttavia ai soli risultati d’inclusione sociale, ma spazia anche nell’universo economico.

Lucano, infatti, per far fronte ai ritardi nell’erogazione dei fondi Sprar al comune, piuttosto che rivolgersi all’intermediazione bancaria, s’inventa una moneta parallela all’Euro che consente all’amministrazione di:

– non intaccare la capacità di spesa delle casse comunali con gli oneri bancari derivanti dall’apertura di una linea di credito;

– evitare il blocco dell’economia cittadina garantendo la convertibilità con l’euro a tasso fisso;

-rinsaldare ulteriormente la coesione sociale generata dal proprio modello in quanto la comunità riconosce abitualmente nei propri scambi la nuova valuta perché emessa da un soggetto, il comune, identificato univocamente come affidabile.

Mimmo Lucano non è più Sindaco di Riace. La sua amministrazione è stata decapitata d’ufficio da una sentenza giudiziaria. Lucano non può nemmeno più risiedere nel Comune di Riace.

La colonizzazione interna

“È come nel classico film americano: i giocatori di football bullizzano i secchioni e le cheerleader emarginano tutte quelle che pesano più di 45 Kg. In mezzo ci sono i “normali” con le varie sfumature, c’è chi tende più verso gli sfigati e chi, per un pelo non è stato ammesso nella squadra della scuola, chi pesa 50 Kg e chi proprio non ha la minima speranza di essere considerata. Qui però il bullo è il sistema economico nelle sue varie forme, i bullizzati sono i subalterni e in mezzo ci stiamo tutti noi. Tra di noi c’è chi cerca disperatamente di stare sopra la soglia di povertà riuscendoci a discapito della sanità mentale e chi invece è economicamente tranquillo, ma abbiamo due cose in comune: salvo eccezioni non ci curiamo dei “bullizzati” della Terra e il rischio di diventarlo a nostra volta è sempre dietro l’angolo. Possiamo adagiarci all’idea di non appartenere alla parte più povera del pianeta ma rimane il fatto che l’ 1 % della popolazione (quello con un capitale maggiore di 770.000 dollari) detiene il 50,1% della ricchezza totale delle famiglie a livello globale. Prima della crisi economica degli ultimi dieci anni questo valore si attestava intorno al 45,5 %, a dimostrazione del fatto che il lusso non va mai in crisi, anzi! Se vogliamo analizzare i dati in maniera un po’ più ampia possiamo notare che l’ 8,6 % della popolazione (quello con un reddito uguale o maggiore a 100.000 dollari) detiene l’ 86 % della ricchezza mondiale. Sembra che la crisi sia servita ad impoverire ulteriormente i già poveri, far scoprire povero chi prima non lo era e arricchire i ricchi. E’ come se il capitalismo approfittasse delle crisi cicliche insite nel proprio sistema per ammodernarsi, ristrutturare la facciata mantenendo invariata la struttura, fare pulizia di tutti quegli ostacoli culturali, politici, storici e legislativi che mettono dei paletti alla violenza cieca del suo perpetuarsi. L’aumento della disuguaglianza è frutto del Sistema che la produce, non semplicemente il risultato di riforme giuste o sbagliate. La tua squadra perde perché la partita è truccata, non c’ entra nulla l’allenatore. Ma i ricchi non si accontentano della loro ricchezza, vogliono che la cultura di massa la giustifichi, la legittimi. C’è una sorta di “colonizzazione interna”, una dominazione culturale silenziosa ma invasiva. Se nella zona di Piazza delle Erbe, via San Donato e Salita del Prione, dove case popolari e loft di lusso si mescolano e spesso gli affitti variano in base al piano dove si abita e alla vista della quale si può godere affacciandosi alla finestra, la gentrificazione è in atto da almeno dieci anni, più recente è quella che interessa la zona di Piazza delle Vigne e Piazza Lavagna. Lo “spazio vitale” di cui abbisognano le classi medie per prendere l’aperitivo ha fatto moltiplicare i dehors (e i prezzi) dei locali espellendo da quelle piazze chi non può permettersi di sedersi a un tavolino per gustare una pizza a dieci euro e sorseggiare una birra, artigianale, a sette euro. Dopo vent’anni di abbandono finalmente Palazzo Grillo può essere visitato, ma a partire da cento euro a notte. Già, perché un palazzo storico che dovrebbe poter essere accessibile a chiunque è diventato un hotel a quattro stelle dove soltanto in occasione delle sporadiche mostre organizzate al suo interno i comuni mortali possono avere il privilegio di entrare. Il Comune sembra essersi ricordato di avere un gioiello tra le mani soltanto dopo che Palazzo Grillo è stato occupato da un gruppo di comunisti e anarchici, precedentemente sgomberati dall’occupazione di via dei Giustiniani. Ma come mai un immobile di pregio appartenente ad ARTE, quindi pubblico, viene ristrutturato con soldi pubblici per poi passare in mano ad un privato? Beh, il privato ha contribuito alle spese, ma lascio immaginare con quali prospettive di guadagno se per la stanza più piccola si parte da cento euro e se contiamo che stiamo parlando di un palazzo a dieci minuti a piedi dall’Acquario. Se l’unica clausola per poter mettere le mani su un immobile del genere è organizzare qualche mostra gratuita ogni tanto al suo interno e contribuire alle spese di ristrutturazione direi che possiamo quasi parlare di un “regalo” che il Comune ha fatto a un privato. In pratica è come se io e il Comune andassimo a cena in una pizzeria e soltanto per aver pagato il conto mi ritrovassi a essere proprietario dell’intera pizzeria. Ma la gentrificazione passa anche dai cancelli, dai vicoli chiusi, dalle telecamere. Vicino a Piazza delle Erbe, sotto ai Giardini Luzzati, c’ era quella che per tutti era “la rampa” o “rampetta”, ovvero un’insenatura che fungeva da “succursale” dei giardini soprastanti, dove i giovani amavano passare il venerdì e il sabato sera. L’ atmosfera era vivace, non era raro vedere esibizioni improvvisate di freestyle, i ragazzi portavano delle casse portatili che diffondevano le loro canzoni preferite o semplicemente basi su cui rappare, ma non mancavano anche le classiche vecchie chitarre. Certo, non sono andate sempre lisce le cose, qualcuno avrebbe fatto meglio a restare a casa qualche volta se era nervoso, ma anche se non avevi soldi in tasca potevi passare una serata, conoscere gente nuova o passare due ore coi tuoi amici senza l’obbligo di consumare una bevanda, ma soprattutto lo potevi fare a qualsiasi ora. Oggi lì sorge un grosso cancello nero che intorno alle 2 viene chiuso ma spesso, anche quando il cancello è aperto, “la rampa” è transennata. Questo ha fatto migrare parte dei vecchi frequentatori più a monte, nelle panchine tra via del Prione e il Teatro della Tosse, ma è inutile dire che l’atmosfera, un po’ per la differente conformazione dello spazio, un po’ perché altri ora frequentano vicoli diversi, non è più la stessa. Dopo anni di tira e molla pare che la stessa sorte debba toccare a Piazza Settembrini a Sampierdarena. Ed è proprio a Sampierdarena e Cornigliano, dove il prezzo degli affitti è crollato in seguito alla deindustrializzazione, che si concentra la comunità straniera più numerosa: quella ecuadoriana (33 % degli stranieri residenti) con le sue 16753 presenze (dati del 2010). Questa presenza si fa ancora più massiccia in età scolare dove la metà degli stranieri iscritti è ecuadoriana. Proprio come accadeva ai genovesi che migravano in America Latina, spesso progetti temporanei si trasformano in trasferimenti stabili, anche se negli ultimi anni, un po’ per la crisi e un po’ per lo stabilizzarsi della situazione economica in Ecuador, non sono mancati fenomeni di ritorno al Paese di origine. Genova ha nel suo DNA dei buoni anticorpi al razzismo dilagante, la consapevolezza di essere stati a nostra volta “ospiti” proprio nelle stesse terre da cui arrivano i vari Lopez, Oliveira, Fernandez ci fa pensare, anche soltanto nell’inconscio, che con tutti i Parodi, Traverso e Canepa che abbiamo esportato c’è poco da discriminare. Il nostro inno, “Ma se ghe penso”, narra proprio la storia di un migrante genovese che è partito senza un soldo (palanca) verso il Sud America alla ricerca di una vita dignitosa per cui, in un certo senso, essere genovese e razzista è un ossimoro. Ed è quasi ridicolo che proprio a Genova si discuta ancora se “concedere” una moschea sia opportuno o meno a fronte del fatto che già tra Cinque e Seicento in questa città i musulmani avevano un posto in cui pregare. Moschea che, a differenza di quanto molti sostengono (come a Palazzo Grillo), sarebbe realizzata a spese proprie dalla comunità islamica e non con soldi pubblici. Senza contare che, lungi dall’aspettare la nostra benedizione, la comunità islamica si è già attrezzata autonomamente ad allestire luoghi di culto nella città.”

4. Esercito industriale di riserva

La questione migratoria ha fatto sì che negli ultimi mesi si accentuassero due posizioni politico-teoriche fuorvianti e sbagliate. Finte alternative che come tali vanno combattute ponendo la questione di classe al centro del dibattito.

Da un lato vi è quella sinistra che, perso ogni riferimento di classe ed ogni capacità dialettica di indagare le condizioni materiali e le contraddizioni che il capitalismo produce, fa della giusta rivendicazione sui diritti dei migranti una questione puramente etica. Secondo questa visione, gli italiani sono diventati tutti razzisti e prova ne è il consenso al governo giallo-verde. Sulla base di ciò è necessario sviluppare un fronte unitario che si ponga come argine al dilagare del “fascismo”.

Questa visione miope, come indicato nelle restanti parti del presente testo, non analizza le questioni oggettive che stanno alla base del rigurgito xenofobo, e non pone minimamente in discussione il modo di produzione capitalistico che pone le basi strutturali del fenomeno immigratorio.

Dall’altro lato vi è invece quella sinistra che sostiene la necessità di chiudere le frontiere in quanto gli immigrati contribuirebbero automaticamente alla riduzione dei salari dei lavoratori autoctoni. Su questa base si innesta una polemica circa il concetto di “esercito industriale di riserva” elaborato da Marx nei suoi studi.

Marx è infatti il primo a teorizzare la tendenza del sistema capitalistico a generare, in virtù delle sue dinamiche, una quota di popolazione eccedente rispetto alle esigenze del capitale. Si tratta quindi di una massa di disoccupati pronti ad essere ricollocati sia in funzione degli andamenti ciclici del capitalismo sia in funzione di nuove e diverse esigenze produttive.

Chiaramente l’“esercito industriale di riserva” contribuisce alla divisione interna nella massa dei subalterni e ad abbassare il costo della manodopera per il capitale.

Ma se ciò è senz’altro vero, occorre combattere la visione meccanicistica e politicamente reazionaria, secondo la quale basterebbe diminuire l’afflusso degli immigrati al fine di migliorare le condizioni dei lavoratori autoctoni.

Partiamo dal fatto che l’immigrazione è un prodotto stesso dello sviluppo del capitalismo. Essa è figlia dello sviluppo diseguale e si verifica laddove lo sviluppo dei mezzi produttivi è arretrato rispetto allo sviluppo demografico.

Ciò determina già una prima conseguenza: l’aggravamento degli squilibri a danno delle regioni sottosviluppate nei confronti dei paesi capitalisticamente più avanzati. La manodopera più preparata e quella più giovane abbandona il paese che ha sostenuto dei costi per la sua formazione ed in generale per il welfare, scatenando una spirale perversa a danno dei paesi sottosviluppati. Per quanto riguarda il paese di arrivo gli effetti sono senz’altro positivi per il padronato e qui veniamo al punto centrale della questione. Noi riteniamo che l’immigrazione sia utile al sistema capitalista sia sul piano economico sia sul piano politico. Sul piano economico il capitale si garantisce l’immissione di manodopera a basso costo e tampona il decremento demografico dei paesi a capitalismo avanzato. Sul piano politico accentua le divisioni interne alla classe. Sono però le stesse classi dominanti ad alimentare le campagne xenofobe per evitare che si inneschino legami di solidarietà e di classe. All’immigrato è necessario imporre condizioni di vita umilianti affinché non pretenda diritti sindacali e civili. Al lavoratore autoctono si indica nell’immigrato il nemico, verso il quale rivoltare la propria rabbia. Abbiamo una sola risposta da dare: unire gli sfruttati contro i padroni e contro il capitalismo.

L’ordine nel caos di una città perfetta

“Cito dalla terza edizione del “Corso di sociologia” di Bagnasco, Barbagli e Cavalli: “Pensiamo a una strada dove esistono molti negozi, e dove dunque passa molta gente, in ore diverse. Supponiamo ora che si diffondano grandi magazzini in periferia, e che questi per diverse ragioni attraggano acquirenti anche da lontano; i negozi della strada poco a poco chiudono e la gente smette di passarci; in poco tempo la zona diventa insicura e richiede una costosa sorveglianza se si vogliono evitare rischi ai residenti. Possiamo dire che esisteva un capitale sociale informale e gratuito, a disposizione dei residenti, della cui importanza ci si rende conto solo quando viene a mancare.” Questo è quello che sta succedendo a Sampierdarena da quando ha aperto la Fiumara ed è lo scenario che si potrebbe prospettare in Val Bisagno con la recente apertura di Bricoman. Chi esce poco di casa ma legge tutti i giorni “Il Secolo XIX” probabilmente ha un sussulto ogni volta che si deve recare al Matitone, in motorizzazione o comunque a Sampierdarena, ma le parole che ho citato ci insegnano, ancora una volta, che le strade sicure le fanno le persone che le attraversano, i ragazzi che attaccano i manifesti, che le bande esistono ma a ben ricordare sono sempre esistite. Una volta, ma anche ora seppur in termini meno aspri e generalizzati, le rivalità erano tra rioni, quartieri, (sub)culture, fazioni politiche. Il campanilismo affonda le sue radici ben prima dei flussi migratori che hanno interessato l’Italia dagli anni ’90, per cui probabilmente parte della stampa cittadina è semplicemente suggestionata dalla visione di film come “Quadrophenia”, “The warriors” o “West side story”. Nessuna telecamera potrà mai sostituire la sicurezza di un panificio che, lavorando di notte, funge da deterrente per eventuali furti e aggressioni nelle sue vicinanze. Nessun addetto alla vigilanza potrà mai sostituirsi alla sicurezza della bottega che apre al mattino presto o al pub che chiude alla sera tardi. Senza contare il fatto che se le piccole imprese danneggiate dai centri commerciali chiudono, chi rimarrà senza lavoro potrebbe passare dal rendere sicura una via con la sua attività a renderne insicura un’altra in cerca di altre forme di sussistenza, ad esempio rubando le radio dalle auto in sosta. “Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze”. Così recita il Teorema di Thomas. La cronaca di Roma degli ultimi anni è zeppa di episodi di razzismo rivolti però verso italiani. Forse il caso noto più recente riguarda una donna di origini etiopi o eritree (i giornali sono discordi al riguardo) ma nata e cresciuta in Italia che ha rinunciato alla casa popolare assegnatale per un’altra in un diverso quartiere a causa del “comitato d’ accoglienza” messo in piedi da parte dei residenti. La donna non è neppure entrata in casa, se ne è andata scortata dalla digos mentre il reparto mobile faceva sì che i residenti si limitassero ad insultarla. Si era diffusa la voce che quella casa, precedentemente occupata da due italiani, sarebbe stata assegnata a una famiglia straniera e a poco è servito il fatto che invece anche i nuovi inquilini sarebbero stati italiani, benché di origine straniera. Sempre a Roma, il 30 agosto 2017, una donna sostiene di aver subito un’aggressione ed un sequestro da parte di un eritreo che alloggiava al centro di accoglienza in via del Frantoio, quartiere Tiburtino terzo. Le indagini fanno emergere che ad essere aggredito era stato l’eritreo ma ormai la voce è girata e nel giro di poche ore si raduna un gruppo di manifestanti fuori dal centro di accoglienza. Su Facebook i gruppi di quartiere come “Sei di Quezzi se…” hanno dato mano libera a chiunque per poter mettere in allarme interi quartieri, con un clic tutti possono dire assurdità spacciandole per vere e in pochi sembrano preoccuparsi di verificare la veridicità delle parole lette. Alcuni casi sconfinano nella mitomania: addetti Iren scambiati per ladri, fumatori di tabacco accusati di essere tossicodipendenti, necrologi falsi e risse mai avvenute sono all’ordine del giorno con le conseguenze che si portano dietro. A Tiburtino terzo i residenti che stavano manifestando vengono raggiunti in giornata, e nei giorni successivi, prima dai giornalisti, che invece di far emergere la verità soffiano sul fuoco descrivendo in chiave distorta e razzista i disagi, che pure esistono, della periferia romana, e poi dai fascisti, che ovviamente non perdono l’occasione per sciacallare sul nulla. L’aggressione di un’italiana ai danni di un eritreo è stata quindi capovolta, la versione capovolta sostenuta dalla donna è stata giudicata come vera a priori da un sacco di gente che non si è preoccupata di verificare la fonte, questa gente ha reagito in un modo e questa reazione ha avuto delle conseguenze. Di più: grazie ai giornalisti e ai fascisti adesso i problemi di Tiburtino terzo (disoccupazione, sporcizia, assenza di servizi e trasporti pubblici, degrado ecc. ecc.) hanno dei responsabili. Certo, non i veri responsabili, ma d’altronde di vero in questa storia c’è ben poco già in partenza, ciò che importa è che adesso si sa chi sono i responsabili, quelli con cui prendersela: gli ospiti del centro di accoglienza, o comunque i negri in generale. Un non problema scatenato da un non fatto ha generato una guerra tra poveri. Sembra uno di quei vecchi film romani tipo “Poveri ma belli”. A volte è la realtà che supera la fantasia. Ancora più recente e sempre romano è il caso del fantomatico video hard girato al liceo Virgilio durante l’occupazione. Video che a detta dei carabinieri, semplicemente, non esiste, ma che è riuscito comunque a far dimenticare le ragioni dell’occupazione (tra cui il crollo di un grosso pezzo di controsoffitto) ed innescare la macchina del fango nei confronti del collettivo del liceo che è stato addirittura invitato da Lucia Annunziata nella sua trasmissione domenicale. Non sappiamo se Ioculano, sindaco di Ventimiglia, con lo sgombero a suon di ruspe del campo informale nei pressi del fiume Roja volesse portare “un po’ di ordine nel caos di una città perfetta”. Quello che sappiamo è che Ventimiglia non era perfetta neanche prima dell’ondata di migranti pregiudicati (parole del sindaco), che i servizi mancano anche per i residenti e semmai l’ondata dei barbari non ha fatto altro che aprire il cassetto nel quale venivano nascoste le problematiche reali che su quel territorio erano presenti. Non sappiamo neanche cosa spinga l’assessore alla sicurezza di Genova Garassino a schedare i mendicanti tramite la polizia municipale, se non allontanare dalla vista (occhio non vede cuore non duole) la povertà.

Se è vero che i richiedenti asilo non possono chiedere l’elemosina (ma chi lo può fare secondo la legge??) bisogna considerare il fatto che non possono nemmeno lavorare e probabilmente la questua è soltanto un modo per arrotondare i 2.50 euro giornalieri che i centri di accoglienza danno. Una riflessione merita anche la condizione di perenne “debitore” che il migrante subisce. Chi entra nel sistema dell’accoglienza, ma in generale i migranti, è spesso visto come un “poverino”, alla pari di chi non è autosufficiente e sta su una sedia a rotelle. Per carità, esistono casi che richiedono particolari attenzioni perché oggettivamente alcune situazioni sono più delicate di altre, c’è sicuramente chi ha bisogno di supporto psicologico, psichiatrico e fisico. Ma c’è anche chi giustamente non vuole essere considerato un handicappato o un bambino perché, semplicemente non lo è. C’è chi non chiede altro di poter camminare con le proprie gambe, cucinare ciò che più gli piace, autogestirsi, dormire a casa della ragazza che ha conosciuto il giorno prima, essere libero di poter andare dove vuole senza le catene rappresentate dal rilascio delle impronte. L’infantilizzazione del migrante non è meno svilente della stigmatizzazione, comporta una gerarchizzazione di rapporti che dovrebbero essere alla pari. Se percepisco una paghetta, se ho degli orari per mangiare, uscire e tornare nella struttura come posso sentirmi sullo stesso piano di chi mi organizza la giornata? Il migrante non è un animale da addomesticare, ha una sua dignità, non è tenuto a fare la cosa giusta, o almeno non in termini maggiori di chiunque altro. Non è tenuto ad essere riconoscente in quanto non ha scelto lui di nascere nella parte sbagliata del mondo. È per puro caso che non siamo noi al posto suo e i genovesi lo sanno.”

5. Conclusioni

Fino a questo punto siamo stati volutamente analitici e abbiamo fornito una serie di dati che ci illustrano un fenomeno complesso. Un fenomeno problematico.

Non è colpa nostra se abbiamo un sistema informativo che questi dati non li illustra, che si basa sull’idea che bisogna trattare questi dati solo in base all’emergenza, dove a contare è un dibattito totalmente falso tra il Saviano umanista da una parte e Salvini cattivo e razzista dall’altra. Passiamo quindi alla parte politica esprimendola per semplicità attraverso una serie di tesi.

1. Gli immigrati nel nostro paese sono soprattutto economici; la loro presenza viene regolata attraverso un sistema di flussi annuali legati soprattutto alla richiesta di forza lavoro. Si tratta soprattutto di cittadini provenienti dalla UE. A causa delle disparità salariali e di condizioni di vita con gli altri paesi, è conveniente per le imprese italiane gestire forza lavoro straniera in modo da pagarla meno, concedere meno diritti e ricattarla meglio.

2. I profughi e/o clandestini sono una parte minima. Alcuni sono veramente persone che hanno bisogno di asilo politico perché fuggono da guerre e devastazioni. Altri sono migranti in cerca di migliori condizioni di vita che non hanno altro modo per arrivare in Italia.

3. Il sistema di accoglienza UE è totalmente ipocrita perché scarica il peso delle emergenze su pochi paesi. Inoltre, il sistema dei trattati UE è tale che le imposizioni diventano assolutamente inevitabili nel caso in cui i regolamenti servano a padroni e banche, mentre sono carta straccia nel momento in cui divengono utilizzabili per i subalterni. Ciò significa che i confini, in teoria abbattuti, vengano rimessi in piedi in pochissimo tempo. Oppure che il governo italiano possa stipulare accordi con una fazione libica per bloccare le partenze, mentre la UE non considera la Libia un partner gestibile.

4. Il sistema di accoglienza italiano dell’emergenza profughi parte da considerazioni condivisibili ma sembra fatto apposta per creare coloro che lucrano sulla pelle degli immigrati attraverso il sistema di esternalizzazione del welfare e degli appalti.

5. Nel settore delle cooperative lavorano molte persone che a livello di trattamento economico convivono con condizioni di disagio, spesso ricattati. Questi lavoratori devono essere reinternalizzati nel sistema pubblico di accoglienza.

6. La politica italiana (in questo senso Minniti e Salvini sono due facce leggermente diverse della stessa medaglia) è corresponsabile delle emergenze che si creano, specula sulla pelle dei più deboli, alimenta le pulsioni più becere, non esita a creare cimiteri in mare semplicemente per la ricerca di consensi a buon mercato.

7. L’immigrazione è figlia dello sviluppo diseguale. I migranti economici raggiungono altri paesi dove immaginano di trovare condizioni di vita migliori. Spesso le trovano in quanto, salari minori e peggiori condizioni economiche rispetto agli italiani consentono loro di vivere comunque meglio. Inoltre scappano spesso da paesi in guerra o depredati economicamente. Fino a quando ci saranno queste disparità e fino a quando i paesi cosiddetti sviluppati continueranno a depredare questi territori, le immigrazioni non potranno essere fermate, neppure dai Salvini di turno.

8. I problemi legati all’immigrazione (povertà diffusa, concorrenza sui posti di lavoro, gestione truffaldina dei soldi dell’accoglienza, tendenza ai piccoli reati) sono quindi fattori ineliminabili e non risolvibili con norme repressive, anche le più ripugnanti dal punto di vista etico e morale.

9. L’esercito industriale di riserva è la definizione con la quale si indica una massa di lavoratori salariati che possono essere utilizzati per abbassare i diritti dei lavoratori tutti. È una leva in mano ai padroni contro i lavoratori e i loro rappresentanti. In Italia è costituita dall’esercito dei disoccupati. Tra di loro i più in difficoltà sono i migranti in quanto non sorretti da altre reti di supporto. Per i padroni, sfruttare un immigrato o un lavoratore con cittadinanza italiana non fa alcuna differenza. Lo fa perché ciò è reso possibile dalla liberalizzazione del mercato del lavoro. Sostenere che l’immigrazione alimenta lo sfruttamento è quindi assolutamente senza senso. In Italia non abita più gente rispetto agli anni ‘70. Anzi, come abbiamo visto, siamo in calo demografico. Per questo motivo non è stata immessa nuova forza lavoro ma sono cambiate le condizioni di forza nel conflitto capitale/lavoro. Se i poveri italiani vogliono avere più salario, più diritti e più welfare devono lottare per cambiare questi rapporti di forza che sono assolutamente indipendenti dalla quantità di lavoratori provenienti da altri paesi.

6. Domande

1) Per gli sfruttati italiani è più utile recuperare diritti andando a riprendersi lo statuto dei lavoratori, abolendo la legge Fornero, recuperando il welfare pubblico, la scuola e la sanità gratuita, oppure immaginiamo sia più utile sparare sui gommoni trasformando il Mediterraneo in un cimitero? Non ci stiamo chiedendo cosa è più giusto o morale, perché la risposta è scontata. Semplicemente ci chiediamo cosa è più utile per l’interesse dei subalterni.

2) Per chi vuole aiutare i migranti a casa loro: è normale fidarsi di un sistema politico che spende soldi in armi, finanzia le guerre nei paesi da cui la gente scappa, strappa i territori ai lavoratori africani per depredarli di risorse naturali, stringe accordi con i signori della guerra, applica accordi internazionali per fare si che le materie prime abbiamo un bassissimo costo di estrazione e vengano lavorate in paesi lontani?

3) Per chi vorrebbe che i soldi dell’accoglienza non finissero in mano ai mafiosi: è normale che non si pensi a una struttura coordinata pubblica che usi i fondi direttamente verso i destinatari che potrebbero impiegarli rilanciando il consumo in Italia?

4) Per i lavoratori che vengono licenziati: è normale che coloro che vogliono cacciare gli stranieri li facciano lavorare gratis per mansioni che invece dovrebbero essere pagate?

5) Per i cittadini che vorrebbero meno piccola criminalità: non sarebbe opportuno regolarizzare i cittadini stranieri in Italia in modo da sottrarli alla condizione di clandestinità che li porta nelle braccia del crimine organizzato?

Comunque la si intenda il tema dell’immigrazione non può essere sganciato dalle condizioni generali.

Coloro che ci dicono che gli immigrati servono perché ci pagano le pensioni sono pericolosi tanto quanto coloro che fanno propaganda insanguinata bloccando i barconi.

Le pensioni ce le devono pagare i padroni perché lavoriamo una vita per garantire i loro profitti che stanno aumentando mentre si abbassano le nostre condizioni di vita.

Coloro che ci dicono che gli immigrati servono perché fanno i lavori che non vogliamo più fare non sono nostri amici perché tutti i lavori devono essere fatti al pieno dei diritti e devono avere pari dignità.

Coloro che ci dicono che gli immigrati portano aumento della delinquenza si dimenticano di dire che ciò è conseguenza della condizione di clandestinità e di sfruttamento. Che ci rubi il portafoglio un immigrato o un italiano per noi cambia poco. Ci devono essere le condizioni perché la gente non debba rubare per vivere, non debba fare l’elemosina per campare.

Coloro che ci dicono che per eliminare il razzismo serve più Europa ci stanno semplicemente prendendo in giro. E’ la UE che finanzia guerre in Asia e Africa. E’ la UE che mette fuori dai parametri di bilancio le spese militari mentre ci impone tagli alle spese sociali e deregolamenta il mercato del lavoro. È la UE che abbatte i confini tra i capitali ma li rimette in piedi per impedire agli sfruttati di spostarsi per vivere più degnamente.

Coloro che pensano che gli immigrati ci tolgono le case dovrebbero innanzitutto pensare ai milioni di case sfitte, spesso di quei proprietari che affittano case fatiscenti agli immigrati che vivono in 15 per stanza. E che in Italia ci sono case per tutti con una stanza a testa basta espropriarle a chi le tiene vuote o le usa per guadagnare in nero sui più disperati.

A chi dice che non possiamo accogliere tutti rispondiamo che non accogliamo nessuno. Semplicemente vogliamo che ogni cittadino che risiede nel nostro paese possa farlo con uguali condizioni rispetto a chi c’è nato. Il problema non è essere lassisti, il problema è che, chi ci governa crea la clandestinità attraverso leggi che si dimostrano utili solo per i padroni o per coloro che fanno carriera politica sugli istinti xenofobi della popolazione impoverita.

In fondo è semplice: chi vuole entrare in Italia deve avere gli stessi diritti e doveri di qualsiasi cittadino a prescindere dall’etnia. Deve rapportarsi a un sistema di regole che dovrebbe difendere i lavoratori e gli sfruttati in generale. Che dovrebbe imporre un salario minimo al quale fare riferimento e un sistema di diritti e protezioni che non distingua in base alla nazionalità.

Epilogo

Molti, soprattutto nel variegato mondo della “post-sinistra” e dei sostenitori più o meno diretti dei precedenti governi, sostengono che l’Italia sia oggi un paese governato da nazisti, i cui cittadini, prima lavoratori normali, sono improvvisamente impazziti trasformandosi in fanatici razzisti.

Il dibattito sull’immigrazione interno alla classe politica si divide tra coloro che stanno con Salvini e coloro che facevano uguale prima, ma erano più educati.

Lo spettacolo offerto a riguardo, nelle stanze del potere e nei suoi postriboli, assomiglia sempre più a un’operetta in cui tutti gli attori recitano la stessa parte con toni differenti.

Il Ministro dell’Interno sorride sui social network quando centinaia di migranti muoiono in mare.

Gli intellettuali di sinistra, che non vedevano nessun migrante annegare fino a pochi mesi fa e ora non parlano d’altro, sono gli stessi che trovavano divertente che un immigrato lavorasse gratis mentre la disoccupazione in Italia è al 15%.

I giornalisti danno per scontato che la tale ONG è amica dei mafiosi libici ma non conoscono neppure la percentuali di stranieri in Italia.

La classe politica che ha votato il Jobs Act o la Fornero, trova particolarmente fastidioso che un immigrato lavori più facilmente di un italiano e si diverte oggi a contrapporre i pensionati al minimo agli immigrati col telefonino.

Ogni politico dello Stato italiano vorrebbe aiutare gli immigrati a casa loro, per questo giura fedeltà alla NATO che li bombarda, gli vende armi o alimenta il terrorismo interno a quei paesi.

Centrodestra e centrosinistra fanno la gara a chi supporta di più il golpe in Ucraina ma poi si lamentano che le badanti siano tutte di quel paese. E sono tutti d’accordo ad andare in missione in Africa per conto dell’Eni per mettersi d’accordo con governanti corrotti che, in cambio di soldi e appoggi, depredano le risorse naturali di quel continente.

Minniti del PD fa sparare ai migranti dai carcerieri libici mentre Salvini lo ringrazia ma vorrebbe sparare anche a quei pochi che scappano. E diventa difficile capire chi è il killer più spietato visto che la conta dei morti prima o dopo è sostanzialmente la stessa.

Lo Stato che, anche per quanto riguarda la gestione dei migranti, ha ormai perso qualsiasi funzione di mediazione sociale, resta un mero strumento di controllo e gestione dei flussi, peraltro secondo direttrici decise altrove da organismi transnazionali non eletti.

All’interno di questo quadro, è poco importante, per il potere economico sapere chi si alterna al governo del Bel Paese, purché non si scosti dalle linee guida imposte.

Pensiamo davvero che tutto questo sia accettabile?

Noi no. Noi pensiamo che sia possibile e doveroso lottare affinché sia lo Stato ad assolvere alla responsabilità di accogliere tutti coloro che vogliono sbarcare, fornirgli immediatamente un permesso di soggiorno e gestire un’assistenza temporanea in attesa che cerchino e trovino un lavoro dignitoso e adeguatamente remunerato. Affinché la prima preoccupazione della Guardia Costiera sia quella di dover salvare tutti. Affinché i soldi destinati all’accoglienza vengano gestiti direttamente dagli enti pubblici senza intermediari e dati a chi li può spendere alimentando i consumi interni.

Uno Stato capace di rappresentarci, all’estero manda missioni per costruire infrastrutture e impianti civili e non soldati per le guerre imperialiste e utilizza i soldi che oggi vengono spesi per gli armamenti per costruire case popolari (e serviranno lavoratori edili), scuole e asili (e serviranno insegnanti e mediatori culturali), ospedali (serviranno medici e infermieri).

In modo che, se in una classe di una scuola ci sono 10 bambini stranieri che non sanno l’italiano, la classe si faccia di 20 ragazzi e non di 33.

In modo che un povero contribuente trovi sempre una stanza di ospedale disponibile, perché ci sono tanti infermieri e tanti medici e nessuno possa dire che gli ospedali sono pieni di stranieri e noi non ci possiamo curare. Che poi non ti puoi curare lo stesso perché tagliano la sanità e la vendono ai privati sia Renzi che Salvini.

Occorre costruire una forza che sia in grado di porre queste questioni all’ordine del giorno in maniera credibile, sapendo diventare punto di riferimento di tutti gli esclusi dalla distribuzione della ricchezza sociale.

Il vero antidoto al razzismo è che tutti i lavoratori vengano retribuiti equamente a prescindere dalla loro provenienza. Chi sottopaga un lavoratore è un criminale e come tale deve essere trattato. A essere fuorilegge devono essere gli sfruttatori e non gli sfruttati.

Non bisogna affondare i barconi, bisogna affondare i padroni.

John Steinbeck: Furore, capitolo XXI

Ora gli emigranti sono trasformati in nomadi. Quella gente che aveva vissuto di stenti sui magri prodotti d’un pezzetto di terra, adesso ha l’intero Occidente in cui spaziare. E lo va rovistando da un capo all’altro, e le strade son convertite in fiumane di gente, e gli argini dei corsi d’acqua sono presidiati da falangi di straccioni.

Finché erano rimasti nei loro poderi del Middle West e del South West, erano stati tutti coloni, coloni che l’industria aveva lasciati intatti, contadini che non sentivano il bisogno di ricorrere alle macchine per lavorare la terra, né conoscevano la potenza e il pericolo delle macchine nelle mani di privati. Non si erano assuefatti ai paradossi dell’industria. Vedevano distintamente il lato assurdo e ridicolo della vita industriale.

Ed ecco che, spodestati e sfrattati dalle macchine, si ritrovano a trascinarsi senza meta sulle strade. Il moto li trasforma totalmente; la strada li trasforma, e la vita nella tenda, e la paura della fame, e la fame stessa. E li trasformano i bambini senza cibo, e gli interminabili spostamenti. Ormai sono solo dei nomadi. E li trasforma l’ostilità che incontrano dappertutto, e che li cementa, li salda insieme… quell’ostilità che induce i paesini a organizzarsi e ad armarsi come per respingere un invasore, con bande armate di bastoni, impiegati e commercianti coi loro fucili da caccia, preparati a difendersi contro i loro stessi fratelli.

Ed ecco che nel West subentra il panico, ora che i nomadi vanno moltiplicandosi per le strade. I ricchi sono terrorizzati dalla loro miseria. Individui che non avevano mai provato la fame, ora vedono gli occhi degli affamati. Individui che non avevano mai provato desideri intensi per qualche cosa, vedono ora l’ardente brama che divampa negli occhi dei profughi. Ed ecco gli abitanti delle città e della pigra campagna suburbana organizzarsi a difesa, dinanzi all’imperioso bisogno di rassicurare se stessi di essere loro i buoni e i cattivi gli invasori, come è buona regola che l’uomo pensi e faccia prima della lotta.

Dicono: vedi come sono sudici, ignoranti, questi maledetti Okies. Pervertiti, maniaci sessuali. Ladri tutti dal primo all’ultimo, gente che ruba per istinto, perché non ha il senso della proprietà. Ed è giustificata, se vogliamo, quest’ultima accusa; perché come potrebbe, chi nulla possiede, avere la coscienza angosciosa del possesso?

E dicono: vedi come son lerci, questi maledetti Okies; ci appestano tutto il paese. Nelle nostre scuole non ce li vogliamo, perdio. Sono degli stranieri. Ti piacerebbe veder tua sorella parlare con uno di questi pezzenti?

E così le popolazioni locali si foggiano un carattere improntato a sentimenti di barbarie. Formano squadre e centurie, e le armano di clave, di gas, di fucili. Il paese è nostro. Guai, se lasciamo questi maledetti Okies prenderci la mano. E gli uomini che vengono armati non sono proprietari, ma si persuadono di esserlo; gli impiegatucci che maneggiano le armi non possiedono nulla, e i piccoli commercianti che brandiscono le clave possiedono solo debiti. Ma il debito è pur qualche cosa, l’impiego è pur qualche cosa. L’impiegatuccio pensa: io guadagno quindici dollari la settimana; mettiamo che un maledetto Okie si contenti di dodici, cosa succede? E il piccolo commerciante pensa: come faccio a sostenere la concorrenza di chi non ha debiti?

E i nomadi defluiscono lungo le strade, e la loro indigenza e la loro fame sono visibili nei loro occhi. Non hanno sistema, non ragionano. Dove c’è lavoro per uno, accorrono in cento. Se quell’uno guadagna trenta cents, io mi contento di venticinque.

Se quello ne prende venticinque, io lo faccio per venti.

No, prendete me, io ho fame, posso farlo per quindici.

Io ho bambini, ho i bambini che han fame! io lavoro per niente; per il solo mantenimento. Li vedeste, i miei bambini! Pustole in tutto il corpo, deboli che non stanno in piedi. Mi lasciate portar via un po’ di frutta, di quella a terra, abbattuta dal vento, e mi date un po’ di carne per fare il brodo ai miei bambini, e io non chiedo altro.

E questo, per taluno, è un bene, perché fa calar le paghe mantenendo invariati i prezzi. I grandi proprietari giubilano, e fanno stampare altre migliaia di prospettini di propaganda per attirare altre ondate di straccioni. E le paghe continuano a calare, e i prezzi restano invariati.

Così tra poco riavremo finalmente la schiavitù.

E ora i latifondisti e le società inventano un metodo nuovo. Metton su fabbriche di frutta in conserva, e quando le pesche e le pere e le susine sono mature fanno calare il prezzo della frutta fresca al di sotto del costo di produzione. Così comprano la frutta fresca a prezzo irrisorio, ma tengono alto quello della frutta in conserva, e realizzano enormi profitti. E i contadini, i contadini che non possiedono fabbriche di frutta in conserva, perdono i loro frutteti; e i frutteti vengono assorbiti dai latifondisti e dalle banche e dalle società che possiedono le fabbriche di frutta in conserva. I contadini allora si trasferiscono in città, e in poco tempo vi esauriscono il loro credito, e perdono gli amici e s’alienano i parenti e finalmente si riducono anch’essi sulla strada. E le strade sono affollate di gente avida di lavoro, ma avida al punto da esser disposta ad assassinare pur di trovarne.

E le banche e le società si scavano la fossa con le proprie mani, ma non lo sanno. I campi sono fecondi, e sulle strade circola l’umanità affamata. I granai sono pieni, e i bimbi dei poveri crescono rachitici e pieni di pustole. Le grandi società non sanno che la linea di demarcazione tra fame e furore è sottile come un capello. E il denaro che potrebbe andare in salari va in gas, in esplosivi, in fucili, in spie, in polizie e in liste nere.

Sulle strade la gente formicola in cerca di pane e lavoro, e in seno ad essa serpeggia il furore, e fermenta.

Collettivo Comunista Genova City Strike e Nicolò Vano marzo, aprile 2019

Autori:

Collettivo Comunista Genova City Strike è un gruppo di compagni aderenti e fondatori di Potere al Popolo. Attivo da parecchi anni. Possiede una sede in Piazza Truogoli di Santa Brigida. Il sito internet è: www.citystrike.org

Nicolò Vano è un compagno che studia, lavora, vive a Genova