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Il jobs act funziona davvero? Realtà e propaganda ai tempi del governo Renzi

nojbsSulla composizione qualitativa del lavoro e sulla ripartizione dei contratti in Italia sono disponibili moltissime cifre. Periodicamente escono report da parte di vari istituti, spesso legati politicamente a chi governa. Sui dati e sulla loro interpretazione si gioca una battaglia ideologica e di consenso che determina, almeno nel breve periodo, le fortune o le sfortune dell’esecutivo in carica. Ultima, in ordine di tempo, la rilevazione dell’Osservatorio sul precariato dell’INPS, istituto gestito dall’economista Boeri (enfant prodige dell’establishment governativo, ospite fisso dei talk show e dei giornali dove illustra le vie luminose della flexsecurity e dell’innovazione dei contratti per migliorare ciò che tutti definiscono il “sistema paese”).

Secondo queste rilevazioni, nel primo semestre del 2015 vi sarebbe un netto incremento degli occupati rispetto ai dati analoghi del 2014. L’aumento sarebbe di circa 630 mila unità in termini di nuovi assunti. Moltissimi inoltre i nuovi contratti ottenuti per cessazione del rapporto di lavoro a tempo determinato e successiva riassunzione con il cosiddetto contratto a tutele crescenti.

Questi dati andrebbero diffusi con una rilevazione a più lungo termine e soprattutto confrontati con altri dati omogenei che ad oggi non sono disponibili. Ad esempio, per l’istituto di Mediobanca (i padroni e la finanza, per intenderci) non vi sarà per il 2015 nessun aumento dell’occupazione soprattutto per quanto riguarda le grandi imprese. Inoltre il Governo sembra confondere volontariamente nuovi posti di lavoro con nuovi contratti. In sostanza, una buona dose di propaganda truffaldina che i media prendono volontariamente per buona. Questo nonostante sia arrivata puntuale una precisazione dell’Istat sull’impossibile confronto tra dati disomogenei che i media hanno sostanzialmente tenuta nascosta.

Occorre quindi depurare la realtà dalla propaganda ma non si può negare che nel complesso i dati successivi all’emanazione del job’s act registrano una tendenza che è opportuno segnalare: ci sono numerose trasformazioni di alcuni contratti odiosi (ad esempio l’apprendistato) in contratti che vengono definiti a tempo indeterminato (in realtà non è così, visto che con il job’s act tali contratti sono un ricordo). Cerchiamo quindi di capire cosa succede, perché succede e cosa cambia per i soggetti in campo.

Dall’inizio della crisi l’occupazione in Italia è calata complessivamente dell’8,5%, colpendo soprattutto l’industria manifatturiera. Inoltre, per chi lavora ancora, il livello di acquisto garantito dal salario si è enormemente ridotto (circa il 2,5%). Questi segnali di oggi sembrano in controtendenza e sono effetto di due manovre coincidenti: lo sgravio fiscale per i nuovi assunti dal 1 gennaio 2015 e il job’s act. Soprattutto lo sgravio fiscale comporta una maggior propensione per le imprese ad assumere risultando questa operazione più conveniente. Il risparmio è di circa 8000 euro per ogni lavoratore e se, dopo tre anni, avviene il licenziamento, si può riassumere lo stesso lavoratore e riottenere lo sconto fiscale. Questi sgravi fiscali sono soldi sottratti all’INPS il cui bilancio deriva dai contributi che in parte versano i lavoratori e in parte le imprese, ma la parte del leone la fanno numericamente i dipendenti. Il risultato netto è che lo Stato decide di trasferire i soldi dei lavoratori alle imprese che in cambio assumono. Dato che il lavoratore prende sempre di meno, diminuiranno anche i contributi e questo porterà a nuovi buchi di bilancio che verranno pagati con nuove tasse, privatizzazioni e diminuzione delle spese (significa che il salario verrà ulteriormente mangiato da aumenti della sanità, delle scuole, dei trasporti, delle bollette, etc..).

Il job’s act è il completamento dell’opera iniziata con gli sgravi fiscali alle imprese: quando un posto di lavoro si trasforma da apprendistato a tempo indeterminato normalmente siamo tenuti a pensare che si tratti di un miglioramento contrattuale. Il job’s act nasce proprio per negare questa possibilità introducendo elevatissime dosi di precarietà in un contratto che si chiama a tempo indeterminato ma è in realtà iperflessibile, con facilità di licenziamento quasi assoluta.

Con l’unione di queste due manovre lo Stato ottiene quindi i seguenti risultati:

  1. Trasferisce soldi pubblici alle imprese togliendoli ai lavoratori
  1. Il lavoratore in cambio non otterrà quasi nulla perché il contratto a tutele crescenti non gli garantisce quella sicurezza che prima manteneva
  1. Manda in ulteriore sofferenza il bilancio dello Stato aprendo la porta a nuovi tagli

In generale si chiama lotta di classe. La fanno i padroni e la vincono. L’obiettivo è quello di trasferire soldi dai lavoratori alle imprese facendo finta di aiutare chi lavora. Per poi chiamare qualche economista di fiducia che convince la stampa di regime a pubblicare dati senza spiegare il contesto e guadagnare la fiducia di un paese in cui i lavoratori perdono ogni giorno diritti e potere contrattuale.