altri mondi

Crimes of today

A 40 anni da Videodrome (1983) David Cronenberg chiude idealmente il cerchio della “nuova carne” con Crimes of the future (2022): un’opera complessa, in cui il regista e sceneggiatore canadese ibrida il noir col fantascientifico tramite la tensione del thriller, inserendo inoltre temi filosofici ed esistenziali sulla società (occidentale) e sulla Razza Umana, che riconducono non soltanto al già citato Videodrome ma al Ridley Scott di Blade Runner (1982).
La storia si sviluppa in un ambiente suburbano il cui marchio è il degrado generale degli spazi interni ed esterni. Questi ultimi in particolare ritraggono distintamente la Grecia post 2015, devastata nel profondo del proprio tessuto socioeconomico dalle politiche di “risanamento” imposte dalla Troika.
È così che prende forma la sensazione di trovarsi immersi in una distopia, il cui metro è quello della crisi di civiltà (intesa come crisi non solo sistemica ma anche culturale e valoriale) che si estrinseca in un approccio estetico quasi cyberpunk. Nella pellicola si associa, infatti, con grande incisività un livello tecnologico elevatissimo (negli ambiti dell’elettromeccanica, dell’informatica e della biologia) a spazi abitativi e oggetti di consumo che richiamano il degrado proprio del sottosviluppo, il tutto dominato da un Potere impalpabile e pervasivo, particolarmente interessato al controllo dei corpi, non tanto nel senso del loro movimento nello spazio pubblico, quanto di tracciamento e repressione del loro “sviluppo interiore”.
Con il procedere della storia veniamo a sapere che ciò si è reso necessario perché l’umanità è inspiegabilmente divenuta immune al dolore e agli agenti infettivi, e si trascina nella vita come svuotata rispetto ai propri riferimenti vitali istintivi, che erano poi quelli fisici ed emotivi del connubio tra dolore e piacere.
Nella pellicola, Cronenberg torna dunque a trattare con forza due temi fondanti della propria
cinematografia:
– l’ibridazione tra carne, (intesa come forma dell’Essere Umano) e macchina;
– il rapporto tra dolore e piacere, tra sangue e sesso.
Quest’ultimo è probabilmente il riferimento più potente al nostro tempo.
Infatti, pur mediato da strumenti ipertecnologici di costruzione del dolore a noi lontani – le macchine che mediante chirurgiche lacerazioni incidono sui corpi i canoni del nuovo sesso l’esposizione ostentata della nudità corporea fino ai visceri e delle forme di chirurgia estetica più estreme, sembrano l’acme della sessualità mediata e plasmata, nei nostri tempi, dalle piattaforme (da Instagram a PornHub passando per TikTok) che hanno stereotipato il sesso al punto di annichilirne non solo la carica erotica ma anche quella meramente estetica, schiacciata da una produzione seriale pressoché infinita (nel film, per altro, il tema è toccato con grande acume sovrapponendolo a quello dell’arte, divenuta oggetto di stanca e autoreferenziale estremizzazione del vuoto esistenziale delle classi sociali più agiate).
Quanto descritto determina una percezione spazio-temporale straniante che aumenta la tensione dello spettatore, in cui s’insinua l’ansiogena ipotesi che lo scenario narrato da Cronenberg, apparentemente fuori da un orizzonte definito, sia in realtà più prossimo di quanto vorremmo pensare.
Cresce dunque una tensione dilaniante fatta di rifiuto e voyeurismo nei confronti dell’abisso orrifico che si palesa distintamente solo nella seconda metà della pellicola: un mondo tecnologicamente avanzatissimo ma devastato dagli scarti generati dal vertiginoso progresso industriale che lo caratterizza, in cui la sopravvivenza della Specie Umana può darsi ad una sola condizione, l’evoluzione verso una nuova carne, che in un futuro sintetico è destinata a nutrirsi di plastica.

 

È curioso che la circolarità quarantennale disegnata da Cronenberg, cronologicamente sì sovrapponga al vecchio che non muore circa gli approcci politici alla crisi economica e ambientale, e al rischio sempre più concreto di guerra totale, che torna ad essere una “opzione plausibile” per le classi dirigenti occidentali.
Ancora una volta, l’arte anticipa le crisi della società borghese, ma in quanto prodotto di quella stessa società si dimostra ormai incapace di tratteggiare una via di uscita, anche utopistica.
Nell’ultima opera di Cronenberg, infatti, l’assenza di futuro è totale. Crediamo sia lo stesso per il modo di produzione che le ha consentito di generarsi e da cui è necessario affrancarsi – a partire dai suoi codici culturali – se un nuovo futuro si intende immaginarlo e costruirlo davvero.